La pubblicazione dell’articolo di Francesca Borri sul mestiere del giornalista freelance ha innescato una discussione sullo stato della professione su vari siti e testate d’informazione. Ecco l’esperienza di un’altra giornalista, Lou Del Bello (qui l’articolo integrale), che ne dà una visione molto diversa.
[…] Devo essere onesta, in Italia non lo so com’è fare il freelance, perché non l’ho mai fatto a tempo pieno. Non mi pagavano abbastanza per vivere, quindi facevo altre cose. Però mi ricordo le regole del gioco. Per esempio mandi gli articoli commissionati senza aspettarti un feedback. Se sei fortunato te li pubblicano, se no hai perso tempo e soldi perché ovviamente non verrai pagato, e non saprai mai cosa è andato storto. La gente si pestava i piedi per venti euro. Non che mi spaventassero gli ambienti competitivi, semplicemente non vedevo il punto di abbassarsi a fare le scarpe a qualcuno per due spicci. Ovviamente, in Italia ero un’arrogante.
Mi ricordo che in Italia pensavo «il giornalismo è un hobby da ricchi». Non era vero. Ho conosciuto tanti, non necessariamente di famiglia ricca, che hanno deciso di investire nel proprio futuro facendo una scuola di giornalismo. Troppi sono stati turlupinati dall’Ordine che ha deciso di fare affari sulla loro pelle. La scuola costava cara e i corsi rimanevano aperti nonostante la palese incapacità del mercato di far posto ai nuovi arrivati, che oggi sono disoccupati.
Anche io, nonostante il mio strombazzare contro queste scuole «perché il mestiere si impara, non si studia», sono poi finita a fare un master in giornalismo, ma grazie a dio non sono rimasta disoccupata. Sono andata via che ero già vecchia. 28 anni, troppi per cominciare da zero in Italia. Ma, mi dicevano, non per la Gran Bretagna. Così ho scelto un corso che corrispondesse almeno in parte con la mia esperienza precedente, per non buttare via proprio tutto. Mi sono sempre occupata di ambiente ed energie fossili, e Science Journalism sia.
Dal giorno in cui ho deciso che si poteva fare, però, ne ho passate parecchie. Anche se allo stesso tempo, se ripenso a tutti i colpi di fortuna che mi sono capitati, mi dico che era destino. La mia famiglia è povera e “l’esperienza all’estero” semplicemente non è mai stata un’opzione. Quindi non solo dovevo farmi ammettere in un corso di alto livello nonostante il mio inglese penoso, ma dovevo trovare i soldi per mantenermi e pagare le tasse, 9mila sterline. Di quei mesi ricordo il muro della mia camera coperto di post-it su cui scrivevo le parole nuove, le attese fuori dalla banca a primavera, le lungaggini burocratiche per assicurarmi l’ultimo prestito d’onore sopravvissuto alla manovra Monti, 20mila euro. Non abbastanza per vivere tutto l’anno, ma sufficienti per partire. Me lo revocarono due settimane prima della partenza, ce l’ho fatta grazie al sostegno di un avvocato battagliero. Più avanti, ho vinto una borsa di studio dell’Inps di altri 6mila euro, giusti giusti per finire l’anno. Per fortuna, qui dalla Regina sono pragmatici e il corso dura solo dieci mesi, per metterti a lavorare prima. Studi poco sui libri e fai molta pratica, così quando finisci ti eviti il classico spaesamento post laurea. Sai già cosa fare, e il lavoro non è un miraggio. Un po’ perché l’economia non è allo stremo, un po’ perché se vivi in una capitale di dieci milioni di persone di lavoro ce n’è di più, un po’ perché sei preparato.
[…] Fare il giornalista scientifico non è per niente palloso. Come un prestigiatore, fai cose sorprendenti che nessun altro sa fare. Essere un freelance in Italia è un modo cortese per indicare “uno che ha fallito nel trovare un posto fisso”. Qui, nell’isola dove tutto funziona al contrario, freelance è una persona che viene scelta ogni giorno perché produce cose che altri non sanno fare, ed è rispettata per questo. Mentre se sei assunto lavori per l’azienda, se sei freelance l’azienda sei tu. Funziona.