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di Irene Pellegatta

Sono 65 i migranti accolti a Venegono Inferiore (Varese) negli spazi dell’Istituto Superiore Don Milani. Sono giovani – nessuno supera i trent’anni – , richiedenti asilo, desiderano lavorare. Giunti in Italia, dopo aver soggiornato per un breve periodo a Bresso (Milano), sono stati il motore di un’importante operazione di solidarietà che il Comune, unico su tutta la Provincia, ha avviato schierandosi immediatamente in prima fila nell’accoglienza ai migranti che stanno giungendo sulle coste italiane. Venegono, dunque, dà prova di grande capacità organizzativa e spirito di accoglienza nel collocare alla gestione della quotidianità di questo Centro di accoglienza temporaneo le proprie migliori forze volontarie. Non esiste infatti retribuzione per coloro che ogni giorno, da tutta la Provincia, sono impegnati su diverse turnazioni nella gestione del Campo, dalla distribuzione dei pasti a quella del vestiario. Ma l’impegno più importante, come raccontano, è il sostegno umano che si riserva a queste persone agli esordi del loro processo di integrazione. Così, tra infinite partite di calcio e momenti di lavoro per il buon funzionamento di questo neonato microcosmo, mediatori culturali arginano col loro operato il divario linguistico che inevitabilmente si crea in contesti di questo tipo. Dall’altro lato della struttura, insegnanti di italiano offrono gratuitamente il proprio tempo per trasmettere ai ragazzi le frasi di cui si ipotizza avranno più bisogno. Come ti chiami? Da dove vieni? Ho fame. Che ore sono? Ripetono e ripetono. E l’integrazione comincia. I rapporti si fanno meno diffidenti e, a poco a poco, permettono lo schiudersi delle storie di questi ragazzi

Il loro viaggio è iniziato molto lontano, in Senegal, in Mali, in Sierra Leone, in Bangladesh. Molti di loro hanno nomi difficili da pronunciare. Altrettanti, quei nomi, vorrebbero lasciarli indietro, abbandonarli ad un capitolo chiuso al di là del mare. Molti sognavano l’Italia, molti altri sognano il nord Europa. Un futuro diverso da quello di guerra e fame è naturalmente obiettivo comune, magari proprio là dove parenti e amici partiti prima di loro si sono già stabiliti da alcuni anni. Difficile tentare di fare il salto, compiere uno sforzo di identità e “mettersi nei panni” di chi giunge segnato dalla miseria sulle nostre coste. Tante volte ci ripetiamo – quasi il luogo comune di chi auspica l’accoglienza – che anche noi italiani siamo stati migranti, che anche noi abbiamo conosciuto la povertà e l’indifferenza. Che anche i nostri bisnonni non conoscevano l’inglese quando sbarcavano negli Stati Uniti, o lo spagnolo quando approdavano sulle coste argentine. Ma spesso lo sforzo di comprensione non riesce a colmare nella sua pienezza il gap delle differenze, soprattutto culturali. E allora, probabilmente, è proprio dalla cultura, dalla cultura delle differenze, che bisogna ricominciare a costruire le vite di questi migranti, e, in parallelo, le nostre che li contemplino. Un cammino non certo facile, soprattutto se basato su un processo di integrazione che non sia unidirezionale e che consenta a entrambe le parti di conservare il nucleo fondamentale della propria identità.

Vale forse la pena ricordare le parole con cui Mohamed Ba, scrittore migrante di origine senegalese, riscriveva ne “Il tempo dalla mia parte” i Dieci Comandamenti alla base della cultura occidentale conferendo loro una nuova valenza, nella direzione dell’integrazione: «Non avere altro io all’infuori di te; Non nominare la nazionalità degli altri invano; Non testimoniare sulla cultura degli altri se non ne sai niente o per sentito dire; Non imporre la tua cultura agli altri, confrontati con loro; Non rubare la parola ai nuovi compagni, impara ad ascoltare; Onora la memoria dei nonni, dei fondatori della tua città, e raccontala ai nuovi compagni; Onora e rispetta le culture e le loro feste presenti nella tua città; Non desiderare solo la tua cultura, rischi la solitudine e l’arretratezza mentale; Non desiderare solo la cultura degli altri perché rischi di far morire la tua; e Non uccidere le differenze culturali perché sono la bellezza dell’umanità». Che tale miracolo stia accadendo così vicino a noi?