«La mia decisione ribadisce semplicemente una convinzione: non ho la pretesa di cambiare il mondo e nemmeno di insegnare la vita a nessuno, ma cerco di comportarmi in modo che un certo tipo di mondo non cambi me. Agli sposi auguro una vita all’altezza dei loro sogni. A tutti i giovani che guardano a loro come dei modelli auguro di essere sempre protagonisti in prima persona della propria esistenza. Con una preghiera sincera e un abbraccio». Parola di don Marco Pozza, parroco di Padova che si è cortesemente rifiutato di celebrare le nozze tra Belén Rodriguez e il di lei fidanzato, Stefano de Martino. Non ce ne vogliate se per una volta ci soffermiamo su una questione mainstream, da cronaca rosa, apparentemente priva di qualsiasi interesse rispetto ai temi sui quali riflettiamo ogni giorno su ZeroNegativo. Non ce ne vogliano neanche i futuri coniugi, nessuna antipatia personale ci muove a ragionare sull’episodio. Non si tratta di loro, che sono solo occasionali protagonisti di una vicenda che ha una valenza simbolica che va oltre il fatto in sé.

Il perché del rifiuto di don Marco è spiegato in maniera molto chiara nella sua lettera pubblicata ieri su Avvenire: «La mia disponibilità, come ho fatto presente telefonicamente alla signora Giorgia Matteucci (organizzatrice del matrimonio) era legata a una semplice condizione: poter incontrare i due fidanzati personalmente prima del giorno del loro matrimonio. Tale richiesta, fatta nella giornata di giovedì, non ha ottenuto risposta ma solamente rimandi. Sono venute dunque a mancare le condizioni per fare in modo che un sacramento non venga triturato dal gossip. Capisco gli impegni dei futuri sposi (ai quali ho assicurato di venire incontro), ma ritengo anche serio celebrare il matrimonio con uno stile che sia uguale e rispettoso per tutti, soprattutto per quei giovani che in questi anni ho seguito nel loro percorso di fidanzamento e di matrimonio».

Ecco un esempio tipico di sfasamento nell’interpretazione di uno stesso fatto. Da una parte il mondo dello spettacolo, che ha i suoi tempi, le sue esigenze, i suoi “organizzatori” e tutta una serie di scadenze improrogabili. Dall’altra un’istituzione, la chiesa, che più si allontana dallo sfarzo dei suoi livelli apicali e più si scopre saldamente legata al valore dei gesti e delle parole, spogliate di qualsiasi orpello formale od ornamentale. In sostanza, per don Marco, come per molti altri suoi colleghi ministri della fede, un matrimonio è un matrimonio, punto e basta. È indifferente che davanti all’altare ci siano Belèn e Stefano invece che Marco e Valentina, oppure Silvia e Alberto. In ogni caso si tratta di due persone che si uniscono nel sacro vincolo, e di questo devono rispondere, visto che fanno la scelta (volontaria e non obbligatoria) del matrimonio religioso. Non è una difesa di quest’ultimo istituto quella verso cui ci schieriamo, ma più in generale un apprezzamento per chi, come don Marco, crede ancora nell’importanza simbolica e sostanziale del gesto, qualunque esso sia.

Siamo sempre più abituati ad associare al sostantivo gesto l’aggettivo eclatante: dell’esponente politico, dell’artista, del calciatore, del cittadino che protesta. Stavolta il clamore è richiamato da un gesto che ha come unico intento di conservare la sostanza di una cerimonia che rischia di finire «triturata dal gossip», come dice la lettera. È una questione di coerenza a entrare in gioco, ossia uno dei valori più difficili da preservare in un mondo che vede nel compromesso (quando non nella furbizia) un elemento che fa guadagnare punti agli occhi degli altri. La coerenza (che non ha niente a che vedere col moralismo e non implica alcun giudizio verso gli altri) che in tanti hanno difeso e difendono pagando con la vita, o rinunciando a facili carriere, o ancora accettando l’anonimato invece della popolarità. C’è bisogno di esempi come questo, in altri campi, in altre situazioni; anche noi possiamo rendercene protagonisti nel nostro quotidiano. Senza cercare il clamore, ma accettando le voci contrarie che possiamo attrarre restando coerenti.