Laogai, ossia “Laodong gaizao dui”, significa “riforma attraverso il lavoro”. La formula richiama pericolosamente quell’”arbeit macht frei” che incombeva all’ingresso dei campi di concentramento della Germania nazista. Allora il lavoro avrebbe dovuto dare la libertà. In questo caso, la realpolitik cinese non arriva a osare tanto, si ferma a vagheggiare promesse di riforma. Il calvario attraverso cui passare, però, non cambia. Ancora una volta si tratta di lavoro gratuito (meglio, dovuto), realizzato in condizioni di lavoro disumane, per 16-18 ore al giorno, attraverso la privazione delle libertà fondamentali. Ce ne sono più di mille nel Paese asiatico, esattamente 1422 secondo la onlus Laogai research foundation Italia onlus. Il dato risale al 2008 ed è contenuto nel Laogai handbook; a febbraio 2010, nel suo ultimo rapporto, la onlus assicura che ne fossero in funzione almeno 1007, nei quali erano impiegati tra i tre e i cinque milioni di persone.
259 campi sarebbero destinati alla produzione agricola: frutta, ortaggi, semilavorati da esportare. Tra cui tonnellate di salsa di pomodoro, di cui l’Italia va ghiotta. «Il pomodoro è il condimento maggiormente acquistato dagli italiani», sostiene la Coldiretti. Ogni famiglia durante l’anno acquista almeno 31 chili di pomodori trasformati. Nel settore del pomodoro da industria sono impegnati in Italia oltre 8mila imprenditori agricoli, 178 industrie di trasformazione in cui trovano lavoro ben 20mila persone, con un valore della produzione superiore ai due miliardi di euro. In questo contesto, l’arrivo prepotente dalla Cina degli stessi prodotti a prezzi nettamente più bassi potrebbe abbattere drasticamente questo mercato, e la tendenza è preoccupante: «Aumentano del 40 per cento gli sbarchi di concentrato di pomodoro dalla Cina nel 2010 che superano in totale i 115 milioni di chili, un quantitativo record che corrisponde a circa il 15 per cento della produzione di pomodoro fresco destinato alla trasformazione realizzata in Italia», sempre secondo Coldiretti.
Stiamo trattando il settore alimentare come un qualsiasi altro, abbassando la qualità di ciò che arriva sulle nostre tavole, e quindi una delle fonti del nostro benessere, in favore della solita corsa all’erosione dei costi, e dell’aumento dei margini di profitto. Inoltre, ci piacerebbe capire come mai, quando sono in gioco interessi economici di grande portata (vedi: la Libia e le sue risorse energetiche), non si esita a mettere in moto la macchina della guerra, sempre ovviamente “necessaria”, col fine di esportare la democrazia a forza di bombe – esperimento peraltro fallito più volte anche nella storia recente (vedi: Afghanistan, Iraq). Invece, quando dall’altra parte c’è quello che è ormai il principale partner commerciale delle democrazie più potenti (ma anche di Paesi più giovani come quelli africani), tutto è concesso e la reazione dei nostri politici si ferma a singole, deboli voci, che da destra e da sinistra non riescono a uscire dall’ambito locale. La Cina era conosciuta in tutto il mondo, un tempo, per la preziosità e la cura delle proprie produzioni. Anche oggi da Oriente potrebbero arrivare beni di qualità altissima, eppure, a chi potrebbe darceli continuiamo a chiedere il peggio: grandi quantità a prezzi irrisori. Ma a essere irrisa, qui, è soprattutto la dignità dell’uomo.