«“Quale poliziotto di frontiera chiederebbe mai i documenti a una sposa?”. La prima volta che ce lo siamo chiesti, era una sera di fine ottobre del 2013. Da quando la guerra ci era entrata in casa, non parlavamo d’altro. Delle migliaia di persone in fuga dalla guerra in Siria che ogni giorno arrivavano a Milano dopo essere sbarcate a Lampedusa. Alcuni capitava di ospitarli direttamente a casa nostra, e di ascoltare i loro racconti sulla guerra e sui naufragi. Ripartivano tutti nel giro di pochi giorni, sempre senza documenti, pagando cifre da capogiro ai contrabbandieri che li portavano in Svezia. Ma l’eco dei loro racconti continuava a risuonare nelle nostre case e nelle nostre teste. Fino a quando abbiamo deciso di fare qualcosa».
Questo l’incipit della pagina che descrive il progetto di documentario dal titolo “Io sto con la sposa”. In breve, l’idea è quella di organizzare un finto corteo nuziale per aiutare alcuni amici siriani che hanno faticosamente raggiunto l’Italia fuggendo dalla guerra, a proseguire il proprio viaggio verso Stoccolma, Svezia, dove sperano di potersi stabilire e permettere così ai propri figli di pensare al futuro con serenità. Quale modo migliore di attraversare le numerose barriere che dividono l’Italia dalla Scandinavia evitando i controlli, se non organizzando un bizzarro matrimonio itinerante? Bizzarro quanto rischioso, e i promotori dell’iniziativa ne sono ben consapevoli, lo scrivono apertamente: «Al momento dell’uscita del film, potremmo essere condannati fino a 15 anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Ma siamo pronti a correre il rischio. Perché abbiamo visto la guerra in Siria con i nostri occhi, e aiutare anche una sola persona ad uscire da quel mare di sangue, ci fa sentire dalla parte del giusto».
Tra gli autori c’è anche Gabriele Del Grande, tra i pochi giornalisti italiani (forse l’unico) ad aver raccontato il conflitto siriano andando di persona nei territori di guerra, da freelance, senza la protezione di grandi nomi del mondo editoriale. I suoi reportage si trovano sul suo blog, Fortress Europe, che tra l’altro è noto per svolgere il meritorio (quanto tragico) servizio di aggiornare costantemente il conteggio delle persone morte dal 1988 a oggi attraversando il Mar Mediterraneo per raggiungere l’Europa.
Tornando al documentario, il viaggio si è effettivamente svolto a novembre dello scorso anno, e ora il gruppo di lavoro si sta occupando della post-produzione, con l’intenzione di iscrivere il film al prossimo Festival di Venezia e cominciare la distribuzione nelle sale il prossimo autunno. Ma i costi per produrre un documentario sono alti, e alla base del progetto non ci sono grandi finanziatori. Ecco perché per la raccolta di metà dei 150mila euro necessari alla produzione si sta tentando la strada del crowdfunding. Ossia quella che un tempo si sarebbe chiamata “colletta”, ma attraverso un sito web che raccoglie le offerte dei sottoscrittori, nel quale si può scegliere l’entità della propria donazione, che può dare diritto alla visione in streaming del film, o all’acquisto del dvd, fino all’acquisto dei diritti di proiezione pubblica, magari alla presenza degli autori. Si tratta sicuramente di un’iniziativa interessante, utile a spostare il tiro sul tema delle migrazioni, troppo spesso associate al concetto di sicurezza, e molto più raramente a quello di diritti umani. In fin dei conti, prima di finire nelle mani dei contrabbandieri, affidando la propria vita a imbarcazioni di fortuna dopo aver sborsato cifre esagerate, si tratta di persone in viaggio. «In ballo c’è molto di più del nostro lavoro – chiosano gli autori –. C’è la possibilità di dimostrare che questo amato Mediterraneo non sia soltanto un cimitero, ma che possa ancora essere il mare che ci unisce».