A quale livello di tensione sociale e insofferenza generalizzata verso ogni manifestazione della politica siamo arrivati? Ce lo chiediamo dopo aver letto che nei giorni scorsi, dopo gli insulti ricevuti su Facebook, Manuel Poletti (figlio del ministro del Lavoro Giuliano Poletti) ha ricevuto nella redazione del giornale che dirige una busta con tre proiettili calibro 9, assieme a una lettera con una frase minatoria: «Ti ammazziamo, guardati alle spalle».

A prescindere dalle simpatie o antipatie personali che ognuno possa avere verso il ministro e la sua famiglia, l’episodio ci sembra preoccupante perché conferma e fa fare un “salto di qualità” al clima di odio, indignazione e insulto facile in cui ci muoviamo da un po’ di tempo. Nel caso non fosse nota, la faccenda è cominciata il 19 dicembre 2016, quando Poletti padre è stato protagonista di un’uscita piuttosto infelice in merito ai giovani che lasciano l’Italia (che poi, presa parola per parola, è anche difficile non essere d’accordo: ciò che non si può perdonare sono i toni da chiacchiera da bar piuttosto che da ministro della Repubblica).

Tra le proteste (legittime) rivolte al ministro, c’è chi è andato a indagare negli affari di famiglia, accorgendosi che Poletti figlio è direttore di un settimanale (Setteserequi). Nulla di particolarmente interessante fin qui, se non per il fatto che tale settimanale, come decine di altre testate sparse per l’Italia, incassa da anni i finanziamenti riservati dallo Stato a supporto dell’editoria. È bastato questo ad accendere la miccia che ha innescato una sequela di insulti sulla pagina Facebook di Manuel Poletti. Parole irripetibili, toni da gogna, minacce velate: il solito clima che si scatena non appena si trova un bersaglio su cui scaricare la propria frustrazione. Per quanto possa essere fastidioso, però, immaginiamo che se Setteserequi ha ricevuto dei fondi, probabilmente aveva i requisiti previsti dalla legge, dunque li avrebbe ricevuti a prescindere dal nome del suo direttore.

Si può essere o non essere d’accordo con i finanziamenti all’editoria (che fino ad alcuni anni fa erano decisamente esagerati, ora la situazione è più ragionevole), ma che facciamo di questo passo, insultiamo e minacciamo tutti i direttori di giornali ed emittenti che li ricevono? Non rimarrebbe tempo per fare altro (se proprio volete divertirvi, qui c’è l’elenco dei contributi assegnati fino al 2015). C’è da dire che con quei fondi, il giornale di Poletti paga lo stipendio agli undici dipendenti di cui si compongono le due redazioni in cui è suddiviso. Figli di papà raccomandati anche loro? In ogni caso, ciò che preoccupa maggiormente è l’ulteriore passo avanti nel clima di indignazione continua e dilagante, ossia la minaccia diretta.

Forse il problema nasce proprio dall’esserci assuefatti a quelli che vengono definiti “leoni da tastiera”. Non appena qualche personaggio famoso (o sconosciuto) fa o dice qualcosa che non va, puntuale arriva la sanzione collettiva sui social (e l’aggettivo qui fa sorridere) network. È diventato un fatto quasi divertente, viene da andare a curiosare per vedere quali oscenità sono state scritte all’indirizzo del “colpevole”. Poi magari si scopre che l’accusato non è colpevole di nulla, ma ormai la sua vita è diventata un inferno. La busta con i proiettili e la minaccia di morte ci fa ancora impressione, per fortuna. La paura è che col tempo ci abituiamo anche a quelli, che si accetti di considerarli “parte del gioco”. E allora quale sarà il “salto” successivo? Sarebbe bene pensarci ogni tanto, possibilmente prima di digitare il prossimo commento.

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