Nel mondo delle aziende, in qualsiasi settore, c’è una grande attenzione verso la capacità di interpretare i dati a disposizione per prendere decisioni più intelligenti (in inglese si usa l’espressione data-driven decisions). Secondo Cassie Kozyrkov, Chief Decision Intelligence Engineer di Google, dovremmo piuttosto parlare di decisioni ispirate dai dati (data-inspired decisions), perché l’essere umano tende a soffrire di quello che viene definito confirmation bias (qui spiegavamo di cosa si tratta). Kozyrkov fa un esempio in cui molti potranno riconoscersi.
Quando si valuta se comprare o meno un oggetto su un sito Internet, spesso si vanno a guardare le recensioni degli utenti e i punteggi di feedback attribuiti al venditore. Ora, cosa succede se vedete un punteggio di 4,2 su 5? Dipende, secondo la manager di Google, da ciò che avevate deciso primadi guardare quel punteggio. Se partivate già con l’idea che quel materasso, o casco per la moto, o paio di scarpe era ciò che volevate, 4,2 vi sembrerà un ottimo punteggio. Se invece partivate dubbiosi, probabilmente vi chiederete come mai il voto sia 4,2 e non 4,5, o 4,8. E magari andrete a cercare le poche recensioni negative, dando loro molto peso nella vostra decisione di non acquistare il prodotto.
Immaginate questa dinamica riprodotta in una grande azienda tecnologica. «Abbiamo fatto bene a ingrandire lo schermo dei nostri smartphone? Consultiamo il nostro team di data scientist». Mettiamo che i dati dicano, per esempio, che i telefoni con schermi più grandi hanno venduto il 20 per cento in più di quelli con schermi più piccoli. È un risultato buono o cattivo? Dipende dagli obiettivi che ci si erano prefissati, certo. Ma il rischio di non dare comunque troppo credito al risultato può dipendere molto dal generale scetticismo (o entusiasmo) della dirigenza rispetto ai telefoni con schermi grandi. Si potrebbero chiedere ulteriori dati a proposito del numero di incidenti dovuti agli schermi più grandi, della maggiore possibilità che si rompano o graffino, del numero di utenti che si sono lamentati per questioni legate alla novità, ecc. Tutto per andare, col supporto dei dati, verso la decisione che comunque si voleva prendere, e cioè continuare (o interrompere) la produzione di telefoni con schermi grandi.
Si rischia così di rendere il data scientist un “hobby costoso” per l’azienda. L’avviso di Kozyrkov per evitare di cadere in questa trappola può sembrare scontato, ma è fondamentale, proprio per quanto abbiamo detto fin qui: stabilire le regole prima di vedere i dati. Tornando all’esempio iniziale, se io decido in anticipo che prenderò in considerazione solo prodotti di venditori che hanno un giudizio di 4,5 o superiore, poi non avrò dubbi davanti a un 4,2. Allora potrò dire che si tratta di una decisione data-driven, e non data-inspired.
Quella del data scientist è una figura relativamente nuova nel mercato, che si è affermata negli ultimi anni e tuttora è molto ricercata dalle aziende. È celebre tra chi segue questo settore un articolo apparso nel 2012 sulla Harvard Business Review, intitolato “Data scientist: il lavoro più sexy del 21esimo secolo”. La parola “sexy” non va ovviamente presa alla lettera, ed è a sua volta la citazione di una dichiarazione di Hal Varian, chief economist di Google, che nel 2009 parlava della statistica come lavoro più “sexy” per i futuri dieci anni. L’articolo della Hbr cita un episodio chiave nella comprensione delle potenzialità dei dati come spinta per lo sviluppo del business.
Siamo nel 2006, e LinkedIn è un promettente social network legato al mondo del lavoro, con poco meno di 8 milioni di account. Il problema è però mettere in connessione gli utenti. Le persone si iscrivono, aggiornavano il proprio curriculum, ma poi non sono incentivate a cercarsi e connettersi. Come detto da uno dei manager di LinkedIn, «è come arrivare alla reception di una conferenza e realizzare che non conosci nessuno. Te ne stai in un angolo a sorseggiare il tuo drink, e probabilmente vai via presto». Jonathan Goldman, dipendente con studi di fisica alle spalle e da poco assunto, si rende conto che c’è una grande mole di dati a disposizione che può favorire le connessioni tra utenti. Tra lo scetticismo di molti, Goldman propone di inserire un banner in cui la piattaforma suggerisce all’utente il profilo di un’altra persona che ha qualche elemento in comune (per esempio lavorare nella stessa azienda, o nello stesso settore, o aver studiato nella stessa università, ecc.). Oggi ci sembra una scelta ovvia, ma bisogna tenere presente che nel 2006 i social network sono una novità (Facebook apre a tutti la possibilità di iscriversi proprio in quell’anno). Da quel momento, i clic su quel banner aumentano costantemente, e così le connessioni, contribuendo a rendere LinkedIn la fitta rete professionale che è oggi.
(Foto di Stephen Dawson su Unsplash)