Parlando di teorie economiche, e di teorie in generale, il rischio di farsi sedurre dal fascino della loro esposizione, piuttosto che dalla bontà del ragionamento, è sempre molto grande. Soprattutto se non si hanno le conoscenze tecniche per valutare le diverse posizioni in campo. È una dinamica inevitabile, c’è poco da fare. Ed è infatti così anche per una teoria che ha conosciuto una certa popolarità ultimamente, quella sulla “decrescita felice”, definizione coniata nel 1992 da Serge Latouche, ma che affonda le radici nel XIX secolo della grande espansione industriale e dell’ascesa del capitalismo.
Nei giorni scorsi, due scrittori si sono confrontati indirettamente sulla questione. Il primo, Antonio Pascale, definendola una forma di nuovo egoismo; il secondo, Sandro Veronesi, constatando che coloro che invece ne sostengono l’autorevolezza «almeno propongono qualcosa di un po’ più serio che alzare le tasse, smantellare lo Stato sociale e aspettare che passi ‘a nuttata». Prima di continuare dobbiamo scoprire le carte: non abbiamo specifiche conoscenze tecniche di economia, quindi cerchiamo si seguire il ragionamento secondo la logica del pensiero e la prova dei fatti.
Detto ciò, la pessimistica visione di Pascale ci sembra facilmente scardinabile. Chi infatti critica la teoria della decrescita sostiene spesso, come lo scrittore, che la definizione non trovi spazio nei dipartimenti di Economia. E in effetti è vero. Ma non sono uscite da quegli stessi dipartimenti le ricette che hanno poi innescato l’attuale crisi, così come quelle che l’hanno preceduta?
Altro facile errore è quello che porta a concludere che con l’attuale modello di sviluppo stiamo tutti un po’ meglio: «Se diamo uno sguardo globale -osserva Pascale-, notiamo che benessere e reddito sono in crescita, aumenta la vita media e decresce la mortalità infantile». A crescere, semmai, è il divario tra chi sta bene e chi no. Chi ha accesso a beni e servizi e chi deve accontentarsi delle briciole. Se nei Paesi in via di sviluppo c’è una ridotta borghesia che ha consumi sempre più simili a quelli “occidentali”, è anche vero che questa costruisce il suo sviluppo sulla povertà di tutti gli altri, che da questo club restano esclusi. Perché non hanno un lavoro, perché ce l’hanno ma guadagnano troppo poco, perché i prezzi continuano a salire.
Anche la classe media europea sta scontando i difetti del modello basato sullo sviluppo continuo, e oggi è la prima a subire le conseguenze della crisi. L’altro scrittore, Veronesi, cita un libro di Herman Daly e John Cobb jr, “For the Common Good”, «in cui si dimostra abbastanza incontrovertibilmente che il valore aggiunto prodotto dall’economia ufficiale in questi ultimi decenni (aumento del Pil, del reddito, dei consumi) si basa in buona parte sul valore sottratto ai beni comuni, sia sociali sia naturali. Surriscaldamento planetario, inquinamento atmosferico e idrico, dissesto idrogeologico, alterazione degli ecosistemi, scorretto smaltimento di rifiuti e scorie e via dicendo, fino al progressivo, spaventoso anticipo dell’età mestruale nelle bambine».
Uno dei vicoli ciechi del ragionamento della decrescita sembra inoltre essere l’impossibilità di concepire una rinuncia al reddito da parte del singolo in favore del benessere collettivo. Ma anche questo è un falso problema, perché comunque, e lo stiamo vivendo in questi anni, un’erosione del reddito (o un suo mancato aumento) la stiamo già scontando. Ci dobbiamo fare i conti da molto tempo, soprattutto noi italiani. Dovremmo forse porre una domanda fondamentale, prima di schierarci pro o contro: la crescita è un valore? Se esclude molti per includere pochi, si può ancora ragionevolmente parlare di “crescita del Paese”? E poi, su cosa si misura questa crescita? Ha ancora senso un indice come il Pil, quando sappiamo bene che ci sono multinazionali che da sole producono più della ricchezza di un intero Paese e hanno quindi una forza che permette loro di influenzare la politica degli Stati e degli organismi sovranazionali? Aspettiamo risposte, anche dai dipartimenti di Economia.