Se è vero che ci siamo dentro, dov’è l’Europa? Siamo l’Unione dell’austerity o quella dello sviluppo? Se ci siamo uniti, perché abbiamo paura a chiamarci Stati Uniti d’Europa? Se abbiamo dei punti in comune, perché non siamo riusciti ad approvare una Carta Costituzionale, almeno di indirizzo generale? Cediamo pezzi di sovranità nazionale, ma da questo puzzle non emerge un quadro coerente, i tasselli non combaciano e le soluzioni non si trovano. Perché l’euroscetticismo ha raggiunto i massimi livelli di sempre? Per la prima volta, secondo l’Eurobarometro, alla domanda «Sei soddisfatto del funzionamento democratico dell’Ue?», i no hanno superato i sì. Le persone non vedono la propria voce rappresentata in Europa, che quindi sembra essere percepita più come un apparato burocratico lontano e ostile che come un’opportunità. Non ci fraintendete, non siamo anti-europeisti, ma questo non ci rende automaticamente europeisti. Vogliamo capire cosa significa stare in Europa, visto che geograficamente e formalmente ci siamo, prima di dire se la cosa ci piace o no.
Chi di noi ha vissuto il periodo del trattato di Maastricht (1992) e la successiva fase di adeguamento agli indici imposti da Bruxelles si chiede com’è che a vent’anni dalla sua entrata in vigore siamo ancora qui, ad affrontare sacrifici per restare dentro a un qualcosa che non è riuscita a esprimere una personalità politica forte. «Tutti dicono che l’Ue è il progetto di un’élite -scrive Ivan Krastev su Kultura-. È vero, il problema però non è che oggi questa élite è diventata antieuropea, ma che ha perduto qualunque influenza nei dibattiti nazionali». C’è un’altra questione molto importante riguardo alla fiducia che le persone hanno nell’Ue, ossia il fatto che questa è direttamente proporzionale alla fiducia che si ha nel proprio governo e nella propria classe politica. Le ultime elezioni italiane parlano chiaro, ci sono milioni di cittadini che sono semplicemente stufi e delusi, e ciò si ripercuote anche sulle istituzioni sovranazionali. Probabilmente siamo vittime anche noi, in parte, di questa dinamica. Parliamo di “noi” come italiani, ma come giustamente conclude Krastev, bisogna andare oltre: «Per permettere all’Ue di funzionare correttamente bisogna prima di tutto definire chi è questo “noi” europeo». Che può diventare uno scoglio insormontabile, se l’Unione non è nemmeno in grado si esprimersi con una voce unica, come testimonia la bocciatura del Seae (Servizio europeo di azione esterna), decretata dalla Commissione affari esteri del Parlamento europeo.
Come osserva il direttore de La Stampa Mario Calabresi, «La crisi della costruzione europea e il ripiegarsi delle nostre società e del nostro modello sociale hanno fatto emergere egoismi e antichi rancori. La religione unica dell’austerità non ha conquistato le menti ma ha freddato i cuori e allontanato i popoli». L’austerità sembra essere la formula magica in risposta a tutti i problemi. Quando c’è da applicarla siamo “stati uniti”, mentre torniamo alla più fredda formula dell’“unione” quando c’è da riconoscere specificità culturali, tradizioni, valori condivisi dei singoli Stati. Come se si cercasse la bellezza nella diversità, finché non entrano in campo i numeri. Non appena ci sono conti da far quadrare e cifre da muovere, la risposta invece arriva unica e compatta come una schiaccia sassi. Questo nonostante gli insuccessi delle politiche di austerità a senso unico, e nonostante le dichiarazioni, tardive, del presidente della Commissione europea José Manuel Barroso, quando sostiene che «un’idea politica non deve solo essere valida ma deve anche essere accettata dai cittadini, altrimenti rimane inapplicabile». Conciliare unità e diversità è forse la chiave per interpretare questo momento di forte divergenza tra Europa ricca ed Europa povera e indebitata. Ma nonostante tale constatazione resta ancora irrisolto il quesito che si poneva in apertura: se ci siamo dentro, dov’è l’Europa?