Nella puntata di domenica 6 gennaio di Che tempo che fa, il meteorologo Luca Mercalli ha richiamato, sul finale del suo intervento -relativo all’anno che verrà dal punto di vista ambientale-, il concetto di resilienza. L’ha fatto in chiusura, quando stava già stringendo la mano e salutando il conduttore Fabio Fazio, e forse proprio per questo il richiamo è rimasto un po’ in sospeso. Riprendiamo allora il concetto, che può essere utile per ragionare su questioni ecologiche tanto importanti quanto poco considerate dalle varie “agende” attualmente in corso di diffusione da parte delle varie forze politiche in competizione per le prossime elezioni.
Il concetto di resilienza ha diverse accezioni in diversi ambiti, ma in quello della biologia caratterizza la capacità di un sistema di adattarsi ai cambiamenti senza collassare su se stesso. Applicato al nostro ecosistema può essere per esempio associato alla capacità di una comunità di adattarsi al venire a mancare di una risorsa fino ad allora abbondante ed economica, prevedendo, preparando e affrontando il progressivo distacco da quella che in alcuni casi può essere una vera e propria dipendenza. Nel caso delle società occidentali i grossi cambiamenti in vista sono la disponibilità sempre minore di petrolio a basso costo e il riscaldamento globale, e sono proprio le due questioni affrontate principalmente dal movimento per la Transizione, nato grazie all’ambientalista inglese Rob Hopkins. Esso risale al 2005 e da allora ha riscosso un interesse sempre maggiore, dando vita a numerose “città della transizione”, o Transition Towns, come sono chiamate in Inghilterra, in cui si prova a passare dalla teoria alla pratica. Già, perché secondo Hopkins già oggi siamo in possesso delle conoscenze e delle tecnologie necessarie a cambiare il sistema, occorre solo applicarle nella direzione giusta.
«Con l’incremento di uno stress –scriveva l’ecologo Eugene Odum-, il sistema, sebbene controllato, potrebbe non essere capace di ritornare esattamente allo stesso livello di prima. Infatti C.S. Holling (lo scienziato padre del concetto di resilienza, ndr) ha sviluppato una teoria ampiamente accettata, per la quale le popolazioni e, per inferenza, gli ecosistemi hanno più di uno stato di equilibrio e dopo una perturbazione spesso ripristinano un equilibrio differente dal precedente». Sostanzialmente la resilienza si contrappone alla vulnerabilità, e si riferisce non solo alle capacità adattive, bensì anche alla possibilità che un sistema risponda al cambiamento sfruttandolo come opportunità di sviluppo, che porti innovazione e un miglioramento della qualità della vita al suo interno.
È un atteggiamento verso cui tutti dovremmo tendere, e verso il quale anche i nostri politici dovrebbero concentrare i propri sforzi in materia ambientale. Ad esempio, ci si continua non occupare del dissesto idrogeologico del territorio, dell’uscita dell’Italia dalla dipendenza dal carbone e dall’energia acquistata a caro prezzo da fornitori esteri, della necessità di una migliore gestione dei rifiuti e di una riduzione di quelli già prodotti, dell’interruzione del consumo di suolo. Misure e strategie già in vigore in tanti altri Paesi europei, ma per le quali l’esigenza italiana di “stare dentro l’Europa” non sembra altrettanto urgente rispetto ad altri temi su cui il diktat dell’Unione è invece inopinabile.
Dentro o fuori dall’Europa? (parte quinta) | Road map e diritti in provetta