A dieci anni dall’approvazione della legge Bossi-Fini, la testata Lavoce.info fa il punto sulle effettive ricadute della norma, alla prova dei fatti. E sottolinea come, su questo tema, siamo decisamente fuori dall’Europa.

[…] L’esperienza dei paesi che hanno gestito il processo migratorio nei decenni precedenti e le indicazioni dell’Unione Europea dopo il Consiglio di Tampere (1999) vanno nella direzione di consigliare flussi moderati di ingresso e di concentrare gli sforzi su politiche di integrazione che debbono assicurare ai lavoratori stranieri e alle loro famiglie piena parità di diritti e doveri rispetto agli autoctoni; e avere come logico sbocco finale quello della cittadinanza per coloro che decideranno di restare definitivamente. Le direttive europee sui lungo-soggiornanti, sui ricongiungimenti familiari e sull’antidiscriminazione hanno fornito una cornice chiara.

Non a caso la Francia (2005) e la Germania (2007) hanno definito per la prima volta compiuti piani nazionali per l’integrazione. In particolare, il piano tedesco insiste molto sulla bi-direzionalità dell’integrazione come sforzo reciproco di adattamento. Al contrario, dopo la vittoria elettorale del 2008, in quella che possiamo definire la seconda fase delle politiche del centrodestra sulla materia, si è insistito sul solito copione. È il cosiddetto “pacchetto sicurezza” (legge 125/2008) che ha fornito le basi giuridiche per alcune centinaia di ordinanze (788 tra l’estate del 2008 e quella del 2009) di sindaci di comuni settentrionali, volte a contrastare le fasce più povere dell’immigrazione e successivamente a ostacolare l’accesso ai servizi e a varie forme di sostegno economico per la maggioranza degli immigrati. “Bonus bebè” riservati ai figli di italiani, dieci (ma anche quindici o venti) anni di residenza in un comune per avere accesso alle graduatorie delle case popolari, limitazioni ai “phone center”, impronte digitali ai bambini rom e così via.

In generale, i mezzi di informazione hanno dato ampio risalto a questo tipo di provvedimenti all’atto della loro emanazione, senza però seguirne l’iter o monitorarne i risultati. In realtà molti dei provvedimenti sono poi stati abrogati dalla magistratura. Numerosi ricorsi sono stati presentati e vinti dagli avvocati dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) e alcune ordinanze sopravvivono solo in assenza di ricorsi, soprattutto nei comuni più piccoli. Uno dei motivi del fallimento della stagione delle ordinanze è proprio da ricercarsi nell’accresciuta stabilità del fenomeno migratorio: tra cittadini comunitari e lungo soggiornanti (cioè possessori del permesso di soggiorno Ce di lungo periodo, che si può richiedere dopo cinque anni), oggi oltre la metà degli immigrati è già titolare di uno status giuridico forte, che non può essere discriminato nell’accesso ai servizi di welfare, secondo la direttiva europea 109/2003.

I decreti attuativi del “pacchetto sicurezza” hanno poi stabilito l’obbligatorietà di un esame di italiano al livello “A2” (corrispondente alla terza elementare) per ottenere il permesso per lungo residenti (e questo è coerente con l’impostazione comunitaria), ma pure il cosiddetto “accordo di integrazione” con un sistema di crediti e debiti che potrà portare anche alla revoca del permesso di soggiornoUn simile sistema (incongrua imitazione della patente a punti) non esiste in nessun paese, poiché il “sistema a punti” in vigore in Australia e Canada e allo studio in altri paesi anglosassoni, serve appunto a selezionare gli arrivi sulla base della professionalità, dell’età, dei legami parentali e della conoscenza dell’inglese prima dell’ingresso nel paese e non già a complicare la vita a chi già sta lavorando. La “Bossi-Fini” e il “pacchetto sicurezza” lasciano una pesante eredità, aggravata dalla crisi economica. Molte cose dovranno essere cambiate, ma l’equilibrio tra flussi di ingresso e percorsi di integrazione è ancora tutto da trovare. Si può solo sperare che la nuova legislatura politica che inizierà tra pochi mesi, riesca ad affrontare il tema dell’immigrazione con più serenità delle precedenti.

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Dentro o fuori dall’Europa? (parte prima)
Dentro o fuori dall’Europa? (parte seconda) | Fiscal compact