Sul decreto “Destinazione Italia”, licenziato dal governo, sono piovute critiche soprattutto per quanto riguarda l’articolo 4. In esso (semplificando) si introduceva una sorta di co-finanziamento da parte dello Stato per l’attività di bonifica di zone di territorio a fronte di un danno ambientale causato da attività industriali. In pratica si accertava il danno ambientale, si trovava un accordo (con chi l’aveva provocato) per risanarlo e poi si usavano soldi pubblici per finanziare parte dell’opera. Come minimo un principio opinabile, visto che in sostanza si chiede ai cittadini di contribuire con i soldi versati allo Stato per riparare un danno causato al territorio da attività private.

Ora quell’articolo è stato modificato grazie a un emendamento proposto da Ermete Realacci, e quindi il rischio è in parte rientrato. Già, in parte, perché non tutti i nodi del testo sono stati sciolti. Come scrive lo stesso Realacci, si è evitato «il rischio sanatoria sulle bonifiche» ed è stato reintrodotto il principio generale per cui “chi inquina paga”: «I fondi previsti nel provvedimento non potranno essere utilizzati dai responsabili dell’inquinamento per attuare le bonifiche né la messa in sicurezza dei siti, ma sono destinati solo a favorire la riconversione industriale e quindi lo sviluppo economico dell’area». Attenzione perché, osserva il co-portavoce dei Verdi Angelo Bonelli, «i contributi potranno essere concessi per l’acquisto di beni strumentali alla riconversione industriale ed allo sviluppo economico dell’area. Quindi, di fatto, a favore di chi ha inquinato, restano meccanismi di tipo premiale, anche se meno gravi di prima».

Il problema è complesso e non si può ridurre a slogan e approssimazioni. Resta il fatto che alcune opinioni sono interessanti e condivisibili, come quella, tra le altre, del vicepresidente di Legambiente Stefano Ciafani: «Il problema delle bonifiche nel nostro Paese inoltre, non si può risolvere solo ed esclusivamente velocizzando la reindustrializzazione. Resta infatti il problema di come bonificare le migliaia di siti inquinati orfani, quelli che sono rimasti “senza padrone”, perché le aziende inquinatrici sono fallite o perché il responsabile dell’inquinamento non è stato individuato come succede, ad esempio, nei territori inquinati dai traffici illegali di rifiuti speciali o pericolosi». Soprattutto, aggiungiamo la considerazione di Realacci quando dice che «È opportuno che in futuro materie importanti come quella delle bonifiche non vengano trattate in decreti omnibus, che non permettono un serio esame delle commissione competenti, indeboliscono il ruolo del Parlamento e non producono buone leggi».

In generale, ci teniamo a fare notare che di nuovo entra in gioco quel meccanismo che abbiamo provato a individuare qualche articolo fa, parlando di agevolazioni fiscali alle ong, quindi ci permettiamo di auto-citarci: «Una pratica utilizzata sempre più spesso dalla pubblica amministrazione (a tutti i livelli) è quella di minacciare (magari per disattenzione, impreparazione, cattiva organizzazione) la cancellazione di un diritto acquisito, per poi, quando si levano i cori di protesta, restituire (quasi sempre con qualche ammanco) il “maltolto”». Qui a essere conteso non è un diritto ma il principio per cui, come si diceva, “chi inquina paga”. Non sappiamo se in questo caso si tratti disattenzione, impreparazione, cattiva organizzazione o semplicemente di una precisa volontà. Comunque, visto che la politica dovrebbe andare incontro agli interessi dei cittadini, questa norma cui prodest?