Entriamo, in punta di piedi, in un dibattito che sta agitando la politica italiana da giorni, e che riguarda la detenzione dell’attivista anarchico Alfredo Cospito. Questi è accusato di strage, prima “contro la pubblica sicurezza” e, in seguito, su indicazione della Corte di cassazione, di strage “contro la personalità dello Stato”, quindi di natura politica.
Si tratta di un reato molto grave, che prevede come pena l’ergastolo ostativo. Oltre a non avere un termine temporale, questa pena prevede che il detenuto non possa accedere a nessuno dei benefici previsti dalla legge, ossia libertà condizionale, lavoro all’esterno del carcere, permessi premio e regime di semilibertà.
Inoltre, nel 2022 a Cospito è stato inflitto il regime previsto dall’articolo 41 bis del Codice penale, che oltre a tagliare ogni rapporto di comunicazione tra il detenuto e l’esterno prevede l’isolamento e l’interruzione di qualunque attività salvo “l’ora d’aria”, che comunque viene trascorsa sempre con le stesse persone, il più estranee possibile al detenuto stesso per evitare che si possano creare reti di collaborazione.
Cospito ha da tempo avviato uno sciopero della fame per protestare contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo, e oggi le sue condizioni vengono definite critiche dai medici che l’hanno in cura.
Sulle pagine di ZeroNegativo ci interroghiamo da tempo sull’opportunità di cambiare questi due statuti giuridici, per cui l’Italia ha ricevuto critiche da parte della Corte europea dei diritti umani. Il fatto che il dibattito ruoti attorno a un persona che si è macchiata di reati odiosi come il ferimento alle gambe di un imprenditore e appunto una tentata strage non deve, a nostro avviso, influire sulla legalità dei provvedimenti presi contro di lui.
Come ricorda a Domani Luigi Manconi, sociologo ed ex senatore, «è ovvio che un governo non debba trattare con gli anarchici o che non debba mediare. Ma chi gliel’ha chiesto?».
Come scrivevamo nel 2019, «L’ergastolo ostativo nasce, assieme al cosiddetto “carcere duro” (regolato dall’articolo 41 bis del Codice penale), come provvedimento straordinario nell’Italia di inizio anni ’90. Un paese che usciva lacerato dalle stragi mafiose che avevano portato via, tra gli altri, i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Misure straordinarie in una situazione straordinaria, che poi sono rimaste anche quando i livelli di emergenza si sono abbassati».
La riflessione, in corso da tempo, è dunque sul fatto che queste due misure abbiano avuto successo nel raggiungere lo scopo che si prefiggono, e se siano sempre applicate nei contesti giusti, cioè quando ci sia un effettivo bisogno di privare il detenuto della possibilità di comunicare con l’esterno e potenzialmente dare “ordini” all’organizzazione di cui fa parte (41 bis), oppure se la clausola del “pentimento” come unica via per ottenere misure alternative alla detenzione (ergastolo ostativo) produca gli effetti sperati in termini di collaborazione tra detenuti e magistratura.
Superati questi interrogativi, bisogna poi scendere nel caso specifico e chiedersi se l’applicazione delle due misure a un caso particolare risponda ai criteri previsti dalla norma stessa. Sempre tenendo a mente un principio fondamentale, enunciato più volte da Manconi nel corso degli anni, ossia che «Tutte le decisioni di diritto prescindono dall’identità della persona incriminata, dal curriculum criminale di Cospito o di chiunque altro, prescindono dalla sua lealtà nei confronti dello stato di diritto, prescindono dalle parole che egli scrive o dice e hanno come unico punto di riferimento la legge. […] una sentenza definitiva della Cassazione nega due cose: nega che la Fai, Federazione anarchica informale, sia un’organizzazione criminale gerarchica, organizzata stabilmente, che prenda ordini e che risponda a una logica di organizzazione con le sue regole classiche. E afferma un’altra cosa: Alfredo Cospito non comanda sulla Fai, non è il leader prigioniero di un’organizzazione criminale che dipenda da lui e che da lui riceve ordini».
La vicenda di Cospito mette alla prova la capacità delle istituzioni, della politica e di tutti noi di uscire dalla polarizzazione del dibattito e ragionare sulle cose per quel che sono, senza cedere alle spinte di vendetta e giustizialismo che, troppo volte, siamo spronati ad assecondare.
(Foto di Tingey Injury Law Firm su Unsplash)
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