Da tempo si discute nel mondo scientifico (e ancora di più fuori al di fuori) sui possibili effetti benefici dati da brevi periodi di digiuno. Le analisi di laboratorio sugli animali (principalmente topi) sembrano molto promettenti, ma i test fatti su esseri umani finora non hanno portato a risultati che mettano d’accordo la comunità scientifica. Nonostante ciò, il mondo del marketing ha “fiutato il business”, come si suol dire, e quindi non vi sarà difficile trovare pubblicazioni di ogni genere sul tema.
La giornalista scientifica Caroline Williams ha voluto provare su se stessa uno di questi sistemi di parziale digiuno (o strumenti di tortura, fate voi), per verificare quali fossero gli effetti sul suo organismo, almeno quelli misurabili nel breve termine. Come racconta in un articolo per il New Scientist tradotto in italiano sull’ultimo numero di Internazionale, si è sottoposta ad analisi del sangue, misurando i livelli di colesterolo e vari marcatori, tra cui quelli legati al diabete e alle infiammazioni. Stabilito che godeva di ottima salute, la giornalista si è quindi imbarcata in un periodo di cinque giorni di “quasi digiuno”, un regime alimentare teorizzato dal gerontologo (cioè uno studioso dei processi di invecchiamento) Valter Longo, University of Southern California a Los Angeles. Secondo questo sistema, mangiare molto poco (mimando quindi un digiuno, ma evitando al paziente di affrontare i morsi della fame e altri effetti collaterali poco gradevoli come svenimenti, ecc.) per cinque giorni consecutivi al mese avrebbe una serie di effetti benefici, sia dal punto di vista della perdita di grasso corporeo, sia per mettere al riparo dall’insorgenza di tumori, diabete, parkinson, alzheimer e in generale “rallentare” certi processi legati all’invecchiamento.
L’ipotesi che il digiuno possa avere effetti benefici sulla salute deriva da una prospettiva storica, oltre che biologica. «Se accettiamo che il paleolitico è stato l’ambiente in cui si sono definiti quasi tutti gli adattamenti umani moderni, compresi quelli dietetici, i cacciatori-raccoglitori si sono adattati per periodi alternati di abbondanza e di carestia», ha spiegato a Williams Stanley Ulijaszek, un antropologo nutrizionista dell’università di Oxford. «Questa per noi potrebbe essere una condizione più naturale dei “tre pasti al giorno”».
Il processo più rilevante su cui sembra intervenire il digiuno è quello dell’autofagia: «La mancanza di nutrienti scatena un processo detto di “autofagia”, in cui le cellule si spezzano e le parti danneggiate o malfunzionanti vengono riciclate e usate come carburante. Si pensa che questo sistema possa essersi evoluto per massimizzare la probabilità di sopravvivere all’inedia». Il processo di autofagia peggiora man mano che invecchiamo, e questo sembrerebbe essere alla base dell’insorgenza di varie patologie. Per questo si pensa che un intervento che lo renda più efficiente, come il digiuno, possa avere come conseguenza un miglioramento della salute. C’è ancora molto da studiare in merito, anche perché è risaputo che un lungo periodo di digiuno può sfociare nell’inedia, una situazione gravemente dannosa per l’organismo.
Quando finisce il digiuno e comincia l’inedia? Difficile stabilirlo con precisione, e soprattutto può variare da persona a persona. Un altro effetto molto studiato del digiuno è la chetosi, che Williams descrive così: «Il corpo comincia a esaurire il glucosio nel sangue e le riserve di glicogeno nel fegato, il che provoca un cambio nel metabolismo: il fegato comincia a convertire i grassi in corpi chetonici che muscoli e cervello usano come carburante, un processo detto chetosi. È per questo che il digiuno provoca quasi sempre una perdita di peso fra il 2,5 e l’8 per cento. Ma non sappiamo quanto tempo bisogna digiunare perché abbia inizio la chetosi». Ecco perché avrete sicuramente sentito parlare di “chetodieta” negli ultimi anni.
Per quanto riguarda l’“esperimento” di Williams, i risultati non sono stati entusiasmanti: «Dopo cinque giorni di digiuno non era cambiato niente – scrive –. L’analisi della composizione corporea dimostrava che avevo perso poco più di un chilo, di cui 584 grammi di massa magra e solo 168 grammi di grasso. E questo era piuttosto sorprendente, perché uno dei meriti più decantati della dieta mima digiuno è che prenderebbe di mira il grasso addominale proteggendo la massa magra».
Bisogna precisare che gli esperimenti su esseri umani fatti da Longo e altri ricercatori sono stati condotti sempre su persone sovrappeso, e hanno dato risultati diversi (più coerenti con l’idea di una riduzione della massa grassa, mantenendo quella magra). Su chi è già in forma e in salute, invece, potrebbero non esserci effetti benefici.
Attenzione: le informazioni contenute in questo articolo non costituiscono consigli medici. È sempre opportuno consultare il proprio medico di base prima di avviare qualunque tipo di dieta o di cambiare in maniera rilevante il proprio regime alimentare.