Alla fine, anzi oltre, dopo i titoli di coda, quando il pubblico si stava già preparando per uscire dal cinema, sono arrivate le dimissioni da presidente della Figc di Carlo Tavecchio. Come abbiamo scritto e ribadito, si trattava di un atto dovuto dopo la pessima figura rimediata dalla nazionale italiana di calcio contro la Svezia. Il fatto che siano arrivate a distanza di giorni dalla sconfitta di San Siro è l’epilogo perfetto di un copione che sembra scritto dal migliore (o dal peggiore, fate voi) degli sceneggiatori.

Uno vorrebbe resistere alla tentazione di generalizzare, di trarre conclusioni applicabili a tanti altri ambiti dell’attualità italiana, ma gli attori di questa messa in scena sono fin troppo abili nel fare aderire i propri personaggi agli archetipi italici con cui tutti, prima o poi, abbiamo avuto (e abbiamo) a che fare. Prima ci ha pensato Ventura, aspettando fino all’ultimo di essere cacciato, ora è arrivato il gesto di Tavecchio, ormai messo nell’angolo dal fatto di non avere più una maggioranza nel Consiglio della Figc. Salvo poi cogliere al volo la prima occasione per sputare veleno su tutti e su tutto. Anche qui una magistrale interpretazione: dopo giorni all’insegna del basso profilo, della disperazione umana (Ventura con le sue «scuse a tutti gli italiani», Tavecchio con i suoi «quattro giorni che non dormo» ai microfoni – tanto per cambiare – delle Iene), arriva lo scatto di orgoglio che spinge ad alzare i toni, in conferenza stampa, nel tentativo di spostare l’attenzione su altro. E poi le dichiarazioni in stile “dopo di me il diluvio”, tipo questa: «Ce l’ho messa tutta ma so fare qualche tiro col portiere fuori, ai cross ci arrivo a malapena e i rigori non li so tirare altrimenti forse, in Francia, ci qualificavamo».

Da un alto dirigente non ci si aspetta che sia in grado, da solo, di fare tutto. All’interno delle organizzazioni, a qualunque livello, chi sta in alto deve avere la capacità di delegare parte delle mansioni e delle responsabilità ad altri. E se non si dimostra in grado di scegliere le persone giuste, allora deve farsi da parte.

In questi giorni si sono spesso utilizzate senza distinzione le parole “colpa” e “responsabilità”. Luca Sofri in un suo articolo ha individuato il problema e ha delineato alcune importanti distinzioni: «“Responsabilità” è una parola molto bella nel suo significato […], perché ne ha due, uno legato al passato e uno al futuro: si è responsabili di quello che è accaduto e si è responsabili di quello che potrà accadere. A differenza di “colpa” che ha sempre un’accezione negativa (e, viceversa, di “merito”), la responsabilità non indica se ciò che è accaduto sia buono o cattivo. Ma soprattutto, implica un potere di scelta su ciò che accadrà, e un potere di influire sulle cose: si è responsabili del fatto che possano essere migliori o peggiori, che qualcosa vada bene o male, che qualcuno sia protetto o no, che tutto funzioni come deve, o persino meglio di come ci si aspetterebbe».

È una distinzione che aiuta a smorzare di molto la tensione in questo tipo di riflessioni. Un conto è pensare che i vari Tavecchio (presenti nel calcio come in qualsiasi altro ambito) abbiano la “colpa” degli insuccessi: in questa formula si intravedono gli indici puntati contro l’accusato, che si mette sulla difensiva e respinge le accuse (oppure assume tatticamente un profilo basso, in modo da passare per vittima). Se si sposta il discorso sul tema della “responsabilità”, beh, c’è poco da discutere. Esistono degli organigrammi, delle strutture organizzative (create proprio per fare chiarezza in merito) che sanciscono chi è responsabile di cosa. Niente accuse, niente toni accesi, non ce n’è bisogno: chi ha sbagliato può anche non avere colpe e avere agito con la massima buona fede; ma ha delle responsabilità, e deve risponderne.

Certo, quando mancano il senso di vergogna la dignità personale, tutti questi ragionamenti cadono. E si assiste a quello che stiamo vedendo nel calcio italiano e in tanti altri contesti: persone che procrastinano le decisioni, nel tentativo di non abbandonare la poltrona o il ruolo di potere; che contribuiscono a creare macerie attorno a sé, per poi dire di essere indispensabili per avviare la ricostruzione. Persone che parlano di porre il bene dell’organizzazione che rappresentano al centro di tutto, ma poi non si fanno alcun problema nel rendersi protagonisti dei più estenuanti sforzi di mantenere lo status quo, soprattutto il proprio.

(Foto di Armando Sobrino su flickr)