D’accordo, forse siamo partiti col piede sbagliato per il 2014: subito cattive notizie e critiche su questioni che fin dalle nostre prime pubblicazioni ci animano. Pur sentendoci in dovere di proseguire su questa linea, ci vogliamo impegnare a pubblicare qualche buona notizia in più, e cominciamo da due temi su cui sempre ci sarà da lottare: l’uguaglianza di genere e la lotta alla pena di morte nel mondo. Sul primo fronte la buona notizia arriva dalla Tunisia, dove il 6 gennaio l’assemblea costituente ha approvato l’articolo 20 della nuova Costituzione, che parla di uguaglianza «senza discriminazioni» tra donne e uomini. Apprezzabile la larga maggioranza con cui è stato votato l’articolo, 159 favorevoli su 169 votanti. Certo ci sono delle riserve, sollevate da alcune associazioni che si occupano di diritti umani, come Amnesty International e Human rights watch, che rilevano come sia troppo riduttivo il compromesso raggiunto. Restano infatti numerose altre discriminazioni, oltre al fatto che la norma parla solo di “cittadini”, e quindi esclude gli stranieri. Inoltre vi è una serie di altre leggi (come quelle sull’eredità) che privilegiano palesemente gli uomini, quindi il risultato raggiunto con questo voto dev’essere visto come un passo fondamentale, ma non definitivo. In ogni caso, la Tunisia resta il più avanzato tra i Paesi arabi in tema di diritti delle donne, e anche le associazioni femministe si sono dette soddisfatte: «Per noi è una vittoria, anche se la discriminazione dovrebbe essere vietata per legge», ha detto Ahlem Belhaj, ex presidente dell’Associazione tunisina delle donne democratiche.
Per quanto riguarda la pena di morte, sono gli Stati Uniti a fornire motivi di ottimismo sulla sua lenta ma (speriamo) inesorabile scomparsa dalla mappa del mondo. Gli Usa sono l’ultima grande democrazia “occidentale” in cui la pena capitale resta in vigore, ma da molto tempo si registra una progressiva riduzione della sua applicazione, il che è stato valutato in un editoriale del New York Times come un segnale del fatto che essa finirà non tanto per abolizione, quanto per lento e progressivo esaurimento. C’è da dire che negli ultimi anni alcuni stati l’hanno effettivamente espunta dal proprio ordinamento (Illinois nel 2011, Connecticut nel 2012, Maryland nel 2013), e ora sono scesi a 32 gli Stati in cui è in vigore. Nel 2013, “solo” in 9 di questi sono avvenute esecuzioni (contro i 13 del 2012), per un totale di 39 condanne a morte eseguite (43 nel 2012). Sono in particolare il Texas e la Florida a contribuire in misura maggiore al dato, con 16 e 7 esecuzioni rispettivamente. In ogni caso, questo processo è lo specchio di una presa di coscienza del sistema giudiziario e dell’opinione pubblica statunitense in merito all’iniquità della pena inflitta. Nel primo caso si fanno strada sempre di più i timori di errori giudiziari, anche per via dei test del Dna che talvolta hanno scagionato imputati già condannati (è successo 311 volte dal 1989); il procedimento giudiziario soffre poi di pregiudizi razziali difficili da estirpare. Dal punto di vista del sostegno popolare siamo ai minimi storici: «Il 40 per cento delle persone intervistate sostiene che non vengano applicate in modo equo. Il 60 per cento rimane favorevole, ma la percentuale ha toccato il livello più basso dal 1972 ed è calata di 9 punti percentuali rispetto sei anni fa. Nel 1994 era favorevole l’80 per cento della popolazione». Peccato che proprio il 7 gennaio sia stata eseguita la prima condanna a morte, in Florida, ai danni di un pluriomicida di 62 anni che ha passato gli ultimi 38 nel braccio della morte.