Il 17 luglio il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, ha annunciato il rinvio al prossimo autunno della legge di riforma del diritto di cittadinanza. La legge è stata approvata alla Camera alla fine del 2015 e da tempo si attendeva il passaggio definitivo al Senato per l’entrata in vigore. Tuttavia Gentiloni ha ravvisato delle «difficoltà emerse in alcuni settori della maggioranza» che gli hanno suggerito di non insistere, per il momento. Tali difficoltà, secondo le ricostruzioni dei giornali, sono dovute a un ripensamento da parte di uno dei principali partiti alleati del Pd, ossia Alternativa popolare (ex Ncd), che starebbe mettendo in atto alcune manovre di riposizionamento in vista di future elezioni. In Italia siamo abituati a piccoli partiti in grado di fare da ago della bilancia sull’approvazione di norme importanti (o sulla tenuta stessa dei governi). Quando si avvicinano le elezioni i piccoli partiti devono preoccuparsi di superare la soglia di sbarramento, per non vedersi esclusi dalle Aule del Parlamento. Se ce la fanno, nonostante le percentuali irrisorie, potranno tornare a essere decisivi in future alleanze di governo. Va così, storture della democrazia rappresentativa e delle leggi elettorali. Sia chiaro, non ce l’abbiamo con Angelino Alfano e con il suo partito, ma se anche una deputata di Ap ha sentito il bisogno di scrivere un post su Facebook per esprimere la propria perplessità sulle vicende che hanno portato al rinvio della norma sul diritto di cittadinanza, ci sentiamo legittimati ad averla anche noi, qualche perplessità.
Il fatto è che alle sventure di questa legge restano appesi circa 800mila giovani, figli di genitori immigrati, ma che hanno speso in Italia la maggior parte delle proprie vite. Si tratta di ragazzi e ragazze che hanno fatto le scuole in Italia, parlano italiano, in molti casi non hanno mai visitato il Paese di origine dei loro genitori, ma per la rigida legge in vigore in Italia (la 91 del 1992) potranno fare richiesta per ottenere la cittadinanza solo al compimento dei 18 anni. L’Italia è infatti uno dei pochi Paesi in cui vige un’unica modalità di acquisizione della cittadinanza, l’ius sanguinis (diritto di sangue). Un bambino è italiano se almeno uno dei due genitori è italiano. Se manca questo requisito, il bambino è straniero. Potrà andare a scuola e accedere a tutti i servizi riservati ai residenti, ma comunque resterà uno straniero fino ai 18 anni, quando potrà fare richiesta per ottenere la cittadinanza. E poi dovrà aspettare che qualcuno gli risponda, cosa per nulla immediata visti i tempi della burocrazia. Per farsi un’idea di cosa accada fuori dall’Italia, riportiamo quanto scrive Lavoce.info: «In Francia, la cittadinanza può essere richiesta dai genitori a 13 anni, se il bambino ha vissuto stabilmente sul territorio per almeno 5 anni. Oltremanica, ha la cittadinanza chi nasce nel Regno Unito da un genitore legalmente “stabilito” (cioè con un permesso di soggiorno senza termine). In Germania, vige uno ius soli automatico se un genitore risiede regolarmente da almeno 8 anni. Oltre all’Italia, solo Austria e Danimarca non prevedono il meccanismo dell’acquisizione per i nati sul territorio nazionale».
La legge che è stata da poco accantonata prevede due nuovi modi per acquisire la cittadinanza. Uno è lo ius soli “temperato”, l’altro lo ius culturae. Il primo prevede che «un bambino nato in Italia diventi automaticamente italiano se almeno uno dei due genitori si trova legalmente in Italia da almeno 5 anni», con ulteriori parametri da rispettare se i genitori non provengono dall’Unione europea. Il secondo è legato al percorso scolastico: «Potranno chiedere la cittadinanza italiana i minori stranieri nati in Italia o arrivati entro i 12 anni che abbiano frequentato le scuole italiane per almeno cinque anni e superato almeno un ciclo scolastico (cioè le scuole elementari o medie). I ragazzi nati all’estero ma che arrivano in Italia fra i 12 e i 18 anni potranno ottenere la cittadinanza dopo aver abitato in Italia per almeno sei anni e avere superato un ciclo scolastico».
Dispiace vedere come gli oppositori di questa legge abbiano festeggiato come un successo personale il suo rinvio, sfruttandolo per fare la solita propaganda sulla cosiddetta “invasione” dei migranti. Questa legge non ha nessun legame diretto con i flussi migratori che stanno interessando la nostra penisola in questi anni. Chi fugge da fame e violenza lo farebbe comunque, con una prospettiva di sopravvivenza basata sul brevissimo periodo. Questa legge è tutela chi decida di porre le basi per una permanenza prolungata in Italia (cioè una minoranza di chi arriva), ed è volta a semplificare la vita ai loro figli che, nati, cresciuti e scolarizzati in Italia, sono costretti a viverci da stranieri.
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