L’ultima volta che abbiamo parlato di Global gender gap su ZeroNegativo era per registrare, nel 2012, il pessimo piazzamento dell’Italia, all’80esimo posto della classifica sulla disuguaglianza di genere. Torniamo a farlo oggi per celebrare un piccolo (piccolissimo) miglioramento, visto che oggi siamo alla posizione numero 69. I criteri considerati dal Global gender gap report, documento pubblicato ogni anno dal 2006 dal World economic forum (Wef) sono quattro: economia (salari, partecipazione nelle aziende e ruoli di leadership), salute (aspettative di vita e rapporto tra sessi nelle nascite), istruzione (accesso all’istruzione elementare e superiore) e politica (livelli di rappresentanza). Si tratta quindi di un indice complessivo che riguarda la qualità della vita e la possibilità di realizzazione professionale e lavorativa per una donna nei 142 Paesi analizzati.
Scorrendo la classifica dal primo posto non si incontrano grandi novità: le prime posizioni sono occupate dagli stati anche geograficamente “in alto”, ossia quelli scandinavi (Islanda, Finlandia, Norvegia, Svezia, Danimarca). Seguono poi alcuni Paesi con storie nazionali difficili e posizionamenti “anomali”, come il Nicaragua e il Ruanda (nel secondo, il ruolo delle donne è stato molto importante per risollevare il Paese dopo il genocidio del 1994). Al di là delle attenuanti, il nostro 69esimo posto resta comunque un risultato piuttosto deludente. Se si guardano i dati analitici, si vede chiaramente come il problema principale stia soprattutto nell’ambito delle opportunità in campo economico. In questo specifico settore c’è stato un tonfo rispetto all’anno scorso, che ci ha portati dal 97esimo al 114esimo posto (non eravamo mai andati oltre il 101esimo da quando esiste lo studio).
Il problema principale sta nella partecipazione delle donne in ruoli di leadership e nei livelli di retribuzione, comparati a quelli degli uomini. In media, una donna in Italia guadagna circa il 48 per cento rispetto a un uomo a parità di mansione. Per fare qualche esempio, in Norvegia la percentuale è pari a 79, in Germania (12esima in classifica) si scende al 63, la Francia (che in classifica generale è 16esima) ci raggiunge (quasi) al 50. Dal lato “istruzione” i dati sono abbastanza conformi a quelli dei Paesi più simili al nostro, eppure l’indice ci sbatte al 62esimo posto, mentre nel 2006 eravamo al 27esimo. Segno che comunque c’è stato un peggioramento nei livelli di scolarizzazione e impiego nel settore della formzione. Il settore in cui l’Italia fa il proprio record personale è quello della rappresentanza politica, dove siamo 37esimi (l’anno scorso eravamo 44esimi, nel 2012 71esimi). In questo hanno sicuramente avuto un ruolo positivo le esperienze dei governi Letta e Renzi i quali, pur con tutti i limiti che ogni giorno cerchiamo di rilevare, hanno contribuito a dare un impulso positivo alla partecipazione delle donne alla politica.
Interessante, dal punto di vista economico, incrociare i risultati con il rapporto sulle politiche di genere effettuato dall’Eige (European institute for gender equality). «Uno degli ostacoli principali alla concessione di un finanziamento è proprio la richiesta – scrive Tiziana Moriconi su D –, da parte degli istituti di credito, del coinvolgimento del coniuge per dare garanzie. In regime di separazione dei beni o di separazione coniugale, ciò è di fatto quasi impossibile, perché rende la moglie imprenditrice dipendente dalla volontà del marito». La cultura di genere passa anche dai dati reali e dall’economia. Un’imprenditrice che per ottenere un prestito deve fornire a garanzia il marito, sarà sempre un’imprenditrice a metà, che oltre a non realizzare se stessa non darà all’economia quella spinta che potrebbe portare l’Italia a livelli competitivi a livello mondiale.