
Di disuguaglianza economica si sta parlando molto in questo periodo. La percezione è infatti che il divario tra chi ha lavoro e redditi e chi invece vive nella precarietà si stia ampliando. Alcuni interventi all’ultimo Festival dell’economia di Trento hanno confermato tale scenario. Il premio nobel Joseph Stiglitz ha concluso il proprio discorso sulle decisioni da prendere oggi per evitare le disuguaglianze future. «Equità e buone performance economiche sono complementari – ha detto –. La perdita di opportunità significa perdita di risorse. Noi possiamo permetterci un grado più alto di equità. Non solo: questa aiuterebbe l’economia. Molti Paesi poveri hanno “scelto” politiche egualitarie».
Un tentativo di fotografare la realtà l’ha fatto anche la testata online della nostra associazione, A tu per tu con Avis Legnano, che nell’ultimo numero (sfogliabile qui) ha dedicato molte pagine a riflettere attorno a questo argomento (segnaliamo anche una gustosa intervista con l’economista Riccardo Petrella, che sostiene un’iniziativa per dichiarare illegale la povertà). Della questione ha parlato anche l’ultimo rapporto Ocse, dal titolo “In It Together: Why Less Inequality Benefits All”. Come riporta in traduzione Rosaria Amato sul suo blog per Repubblica.it, l’Ocse individua due visioni contrapposte sul tema della disuguaglianza. L’una dà più fiducia al mercato e alla sua capacità di auto-regolarsi al meglio (ma ci crede ancora qualcuno?): «La teoria economica ha dibattuto a lungo sulla relazione tra la disuguaglianza e la crescita – scrivono gli analisti dell’Ocse –. Una differenza tra i ricchi e i poveri significa che le persone hanno forti incentivi per cercare di conquistare la ricchezza, lavorando di più, studiando di più, correndo maggiori rischi, e tutto questo porta a una maggiore attività economica, una maggiore efficienza e una maggiore crescita». L’altro punto di vista sulla disuguaglianza è opposto e ne mette in luce tutti i rischi: «D’altra parte maggiore disuguaglianza significa che alcune persone – i ricchi – hanno migliori opportunità di sfruttare diversi vantaggi. Le famiglie povere possono non essere in grado di far studiare i loro figli quanto sarebbe necessario, o possono non permettersi un’istruzione di alta qualità, danneggiando così i loro futuri guadagni. E quindi può essere difficile per loro investire in nuove opportunità».
Sono ovviamente numerosi i meccanismi che hanno favorito l’acuirsi della disuguaglianza in molti paesi del cosiddetto “emisfero occidentale”, in cui si sta sempre più assottigliando il divario tra la classe media e la soglia di povertà. Principalmente, secondo l’Ocse, alla base delle sperequazione c’è «la sproporzione tra gli stipendi tra i lavoratori ai vertici (top manager, ma non solo) e il numero crescente di precari, cioè di titolari di contratti di lavoro non standard – sintetizza Amato –. Lo sono oltre il 50 per cento dei posti di lavoro creati nei Paesi Ocse tra il 1995 e il 2013, osserva il rapporto. La precarizzazione del mercato del lavoro si è tradotta in povertà ed esclusione, e non solo in Italia, è un fenomeno che si è ripetuto nello stesso modo in tutti i Paesi occidentali».
Una declinazione di questo squilibrio si può certamente ritrovare nel diffondersi di forme contrattuali atipiche, che se da un lato favoriscono la mobilità, dall’altro mettono il lavoratore in una condizione di debolezza nei confronti del datore di lavoro. Secondo l’analisi di Michele Raitano per Sbilanciamoci.info, «L’evidenza empirica mostra che i lavoratori atipici sono penalizzati lungo queste tre dimensioni: sono meno pagati a parità di orario, subiscono più spesso un part-time involontario, sono più esposti a rischi di disoccupazione (o interruzione periodica del rapporto di lavoro). Pertanto, la diffusione dei contratti atipici tende ad accrescere le diseguaglianze “orizzontali” fra i lavoratori, ovvero le differenze fra individui per altri versi simili. Senza guardare alle variazioni dello stock degli occupati, la deregolamentazione del mercato del lavoro tende, dunque, ad ampliare chiaramente la dispersione retributiva».
In tutto ciò, quali potrebbero essere le ricadute dell’entrata in vigore delle nuove tipologie di contratti previsti dal Jobs Act? Probabilmente un aumento della disuguaglianza, osserva Raitano, perché alla fine chi entra nel mondo del lavoro continuerà a essere precario e a guadagnare troppo poco: «Da un lato, l’eventuale sostituzione delle forme meno remunerate (le collaborazioni parasubordinate) con contratti da dipendente (a termine o a tutele crescenti, soprattutto nel periodo di vigenza degli sgravi) potrebbe ridurre la diseguaglianza; dall’altro, tuttavia, l’indebolimento della forza contrattuale dei lavoratori, soprattutto di quelli più deboli, che verrebbe peraltro ampliato laddove ci si muovesse verso una maggiore decentralizzazione della contrattazione, potrebbe comportare una riduzione dei salari e, presumibilmente, una crescita della sperequazione».