Nelle ultime settimane, a seguito dell’inchiesta pubblicata dal New York Times a proposito delle molestie perpetrate dal produttore cinematografico Harvey Weinstein, sono molte le donne che hanno preso coraggio e hanno accusato pubblicamente di aver subito molestie sessuali durante la loro vita. C’è chi ha fatto nomi e cognomi, chi ha preferito approfittare di hashtag come #metoo e #quellavoltache, concentrandosi sul racconto dell’episodio subito o lasciando solo intendere di aver subito esperienze simili. Quell’inchiesta (e le successive accuse a Weinstein e ad altri uomini, del mondo del cinema come di qualunque altro campo, anche in Italia) ha favorito la presa di coraggio e di coscienza delle donne vittime di abusi sessuali e ha convinto tante di loro a esporsi pubblicamente. Si tratta di un momento molto importante perché, come ciclicamente accade su questioni delicate e private, il fatto che i media diano molto risalto alla notizia aiuta molte donne a elaborare il proprio vissuto, a riprendere dalla memoria episodi che avevano rimosso e condividerli.

Il senso di “comunità virtuale” permette alle vittime di non sentirsi più isolate e incastrate in un fenomeno al quale non possono opporsi, ma parte di un movimento più ampio che trova la sua forza proprio nel coraggio di chi si decide a denunciare. In un clima del genere, si pongono chiaramente dei problemi che influiscono sul modo di percepire la vicenda e sugli esiti concreti che questa potrà avere. Sull’ultimo punto, al di là delle conseguenze giudiziarie (che richiedono tempi lunghi), delle ricadute ci sono già state visto che, dando credito alle denunce, alcune produzioni hanno già allontanato produttori, attori e registi accusati di abusi. Tra questi, c’è chi ha ammesso di avere agito in maniera inappropriata e si è scusato, cercando (con esiti alterni) di salvare il salvabile.

Detto questo, si pone certamente un problema di garantismo, ossia il principio per cui chiunque è innocente fino a prova contraria. Una molestia, soprattutto se avvenuta molto tempo prima e se non ha implicato rapporti sessuali completi, è difficile da dimostrare. Così come è difficile dimostrare che non sia avvenuta. Molto dipende dal credito (o discredito) di cui godono l’accusatore e la vittima. In Italia peraltro i tempi per sporgere denuncia per violenza sessuale sono molto stretti, solo sei mesi, dunque non ha senso intraprendere una causa giudiziaria in caso di avvenimenti risalenti ad anni precedenti.

Se da un lato è molto pericoloso introdurre una sorta di “sospensione del garantismo” in solidarietà alle donne che denunciano, lo è altrettanto non considerare che anche l’accusato ha degli strumenti giudiziari per tutelarsi. Il primo aspetto rivela la sua pericolosità nel fatto che, una volta accettato che si può derogare a un principio generale in un caso particolare, si costituisce un precedente affinché in un futuro si individui un altro caso particolare, e poi un altro ancora, e così via, fino a ritrovarsi (estremizzando) in un sistema in cui vige la “presunzione di colpevolezza”. Il secondo aspetto riguarda la possibilità, a cui finora nessuno ha annunciato di voler ricorrere, di querelare l’accusatore nel caso si sia convinti di essere totalmente estranei alle vicende raccontate. È ciò che fa notare Giulia Siviero nel suo blog per il Post: «Chi si sente danneggiato ingiustamente da queste accuse può denunciare chi lo accusa. Deve farlo: è infatti nell’interesse di tutti e di tutte (di chi sporge denunce vere, innanzitutto) che le denunce false vengano punite».

Siviero sottolinea un altro aspetto importante, soprattutto per l’Italia, ovvero il fatto che secondo i dati disponibili la stragrande maggioranza delle donne che subisce molestie sessuali non sporge denuncia. Le osservazioni che si sentono in questi giorni, da persone scettiche di fronte a questo proliferare di denunce e col dubbio che in mezzo a tanto materiale ci siano anche molte invenzioni, dovrebbero essere tarate alla luce di questo. Come scrive ValigiaBlu: «Secondo l’Istat, infatti, il 99 per cento dei ricatti sessuali non viene segnalato alle forze dell’ordine; nell’81,7 per cento la vittima non ne ha parlato con nessuno sul posto di lavoro, e solo il 18,3 per cento ha raccontato la sua esperienza. La maggior parte di coloro che non denunciano hanno ritenuto l’episodio meno grave, oppure se la sono “cavata da sole o con l’aiuto dei familiari”. Tra le motivazioni c’è anche la mancanza di fiducia nelle forze dell’ordine o loro impossibilità di agire e la paura di essere giudicate e trattate male al momento della denuncia».

È probabile che tra tante accuse si nasconda anche del veleno, ma questo è un aspetto del tutto secondario. Il fatto è che certi rapporti di potere esistono e vengono esercitati, in maniera più o meno consapevole, ogni giorno. A farne le spese sono soprattutto le donne che, oltre al danno subito al momento della molestia, devono poi affrontare il senso di colpa e il sentimento auto-accusatorio che spesso segue tali episodi. Come ha spiegato Simona Bernardini, psicologa che collabora con l’associazione Telefono Rosa, «C’è la sensazione di aver sbagliato qualcosa, di essere in parte colpevole, sia nel caso in cui si è subito l’abuso sia che si riesca a dire di “no”». «In associazione – aggiunge – lavoriamo spesso con donne che dopo tanto tempo riescono a elaborare tutta quella confusione che suscitano spesso queste vicende traumatiche. Non è automatico, serve tempo».

(Foto di Ivano Bellini su flickr)