È uscito il Global Gender Gap Report 2017 e l’Ocse ha diffuso un importante report sulla disuguaglianza di genere: le notizie per l’Italia non sono delle migliori. Qualche passo avanti è stato compiuto nel corso degli ultimi anni, ma siamo ancora molto lontani dal raggiungimento di una piena parità tra uomini e donne. Secondo gli indici calcolati dal World Economic Forum, che ha prodotto il primo documento, siamo al 126esimo posto (su 144 Paesi coinvolti) per quanto riguarda il Gender gap pay (cioè la differenza di retribuzione, a parità di mansione svolta, tra uomini e donne). Su questo non ci sono stati cambiamenti significativi, abbiamo solo guadagnato una posizione rispetto allo scorso anno.
Va leggermente meglio nell’ambito della rappresentanza politica, dove siamo al 46esimo posto. A seguito della prima rilevazione, che risale al 2006 (e coinvolgeva allora solo 115 Stati), eravamo 72esimi. Un grosso aiuto si deve alla legge che ha introdotto le cosiddette “quote rosa” per le elezioni: «L’innovazione principale degli ultimi anni è la legge 215/2012 che introduce, insieme alle quote di rappresentanza di genere, la doppia preferenza di genere nelle elezioni municipali per i comuni con più di 5mila residenti – spiegano Alessandra Casarico e Paola Profeta su Lavoce.info –: dal 2013 gli elettori possono esprimere fino a due preferenze, a condizione che siano per due candidati di genere diverso. La riforma ha portato a un aumento significativo della rappresentanza femminile nei consigli municipali. Non solo. Il cambiamento nella composizione di genere dei consigli municipali ha anche comportato un impatto sulle policy che vengono decise a livello comunale, con un aumento della spesa pubblica destinata a istruzione e protezione dell’ambiente (Baltrunaite et al., 2017). Un’altra ragione per insistere su questa strada».
La rappresentanza femminile nel Parlamento italiano continua a essere piuttosto bassa, ma ci sono stati netti miglioramenti dal 19,5 per cento registrato nel 2008 al 31 per cento riportato nel Gender Gap Report di quest’anno. Al di là della quantità, è interessante capire il modo in cui si modula l’azione politica delle donne, e come questa viene raccontata. Secondo uno studio del 2015 (pubblicato su Problemi dell’informazione, n. 3/2015 col titolo “Questioni di genere nel giornalismo italiano”) di Saveria Capecchi, docente del dipartimento di Sciente politiche e sociali dell’università di Bologna, aspetto fisico e “stile di conduzione politica” hanno una grossa importanza nel giudizio sulle donne italiane in politica. L’analisi di telegiornali, quotidiani e talk show televisivi ha mostrato, per esempio, che nel 2015 l’aspetto fisico indeboliva, per motivi opposti, due politiche del centrosinistra: Maria Elena Boschi, all’epoca ministro per le Riforme costituzionali, era screditata perché troppo bella (troppo “femminile”); Rosy Bindi era invece attaccata perché non conforme all’ideale di bellezza femminile (troppo “maschile”). Per quanto riguarda lo stile, l’analisi riporta il caso di altre due esponenti del centrosinistra: Laura Boldrini, presidente della Camera, era (ed è) criticata perché troppo aggressiva (troppo “maschile”); Federica Mogherini, Alto rappresentante dell’Unione europea per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, è stata invece bacchettata perché poco incisiva (troppo “femminile”, è stata addirittura presa di mira dall’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso, per essersi commossa parlando delle vittime dell’attentato di Bruxelles del 2016).
Un altro aspetto interessante messo in luce dalla ricerca è il modo in cui si parla delle donne (e quanto se ne parla) nei telegiornali e sui quotidiani. Durante i tiggì, le donne sono protagoniste delle notizie nel 17 per cento dei casi, e sono consultate come esperte solo nel 19 per cento dei casi. Per quanto riguarda la carta stampata, le percentuali scendono rispettivamente al 13 e 17 per cento. Anche le professioni rappresentate tradiscono un’impostazione non neutra nella gestione dell’agenda delle notizie. Le donne tendono a comparire principalmente come casalinghe (70 per cento), oppure non ne viene definita l’occupazione (66 per cento). Vengono invece consultati principalmente uomini per quanto riguarda i politici (92 per cento), gli sportivi (97 per cento), i manager/economisti (90 per cento), gli avvocati/giudici (86 per cento), i docenti (75 per cento).
C’è ancora molto da fare dunque, e l’Ocse ci ricorda che la parità non è solo una questione di principio o culturale. La parità di genere “conviene” a tutti: «L’uguaglianza di genere non è unicamente un diritto umano fondamentale, ma è anche la pietra angolare di una economia prospera e moderna, che punta a una crescita sostenibile e inclusiva, in cui uomini e donne possono dare il loro pieno contributo a casa, sul lavoro e nella vita pubblica. A beneficio dell’economia e della società nel suo complesso».