L’economia italiana continua a perdere nomi di spicco. Stavolta è il turno di Pirelli, le cui quote stanno per essere cedute al gruppo cinese China National Chemical (ChemChina). Nelle ultime ore si parla anche di un’altra possibile cessione, molto meno pesante nelle dimensioni ma rilevante a livello simbolico, quella di Pininfarina al gruppo indiano Mahindra&Mahindra. L’operazione di Pirelli è condotta da Marco Tronchetti Provera, che dal 1992 guida l’azienda dopo le dimissioni di Leopoldo Pirelli. Da allora, gli assetti della società sono cambiati molto, ed essa si è ridimensionata nel tempo, anche per le operazioni azzardate del suo amministratore delegato, come racconta L’Espresso: «La fine in mani cinesi del controllo della Pirelli deriva da un lungo processo di dimagrimento del gruppo, iniziato nel 2005, quando per sostenere l’avventura di Tronchetti al vertice della Telecom, l’azienda milanese aveva dovuto cedere le attività nei cavi per l’energia e in fibra ottica, venduti alla Prysmian, che negli anni successivi si è sviluppata più rapidamente della stessa Pirelli, diventando il leader mondiale nei suoi settori di attività». La dirigenza precedente, in realtà, era reduce da un’operazione non andata a buon fine, ossia il tentativo di acquisizione della concorrente tedesca Continental.
Con l’accordo da 7,1 miliardi siglato tra Pirelli e ChemChina, l’Italia diventa la patria d’elezione degli investimenti cinesi, e conferma che la gestione dei grandi gruppi è spesso in mano a personaggi che non hanno a cuore lo sviluppo dell’azienda, bensì la realizzazione personale data soprattutto dalle manovre finanziarie più azzeccate, piuttosto che da una sana concorrenza imperniata sul prodotto. Tant’è che una delle prime cessioni operate dalla dirigenza attuale fu quella del settore cavi, da sempre un comparto centrale per l’azienda. Inoltre, questa è rimasta in piedi grazie a varie ricapitalizzazioni operate da Unicredit e San Paolo, che però non hanno scalfito l’inamovibilità della dirigenza. «Dopo anni di declino economico, l’Italia è diventata un terreno di caccia per le aziende cinesi, desiderose di giocare finalmente un ruolo di primo piano e prendere il controllo di marchi di valore ma in crisi di liquidità. Solo nel 2014 quelli della Repubblica Popolare Cinese sono stati il 27 per cento di tutti gli investimenti esteri in Italia», scrive Cecilia Attanasio Ghezzi su Internazionale.
Dietro a questi numeri c’è una precisa volontà politica, visto che il 14 ottobre 2014, in un incontro tra il primo ministro cinese Li Keqiang e il presidente del Consiglio Matteo Renzi, quest’ultimo dichiarò che «dobbiamo adoperarci affinché in Italia arrivi più Cina e in Cina arrivi più Italia». In quell’occasione furono firmati accordi commerciali per otto miliardi di euro, il che sanciva ciò che tanti imprenditori italiani avevano già capito dall’inizio della crisi: non resta che vendere ai cinesi. Tanto che nel 2013 nacque addirittura un sito internet dedicato, Vendereaicinesi.it, che si occupa di tradurre in cinese le inserzioni di chi ha attività commerciali in modo che siano visualizzate da investitori del gigante asiatico.
Stiamo insomma cedendo i nostri pezzi migliori (dopo averli adeguatamente spolpati), con tutta la perdita di ricchezza che ne consegue per la nostra economia, e nessuno dice niente. Anzi, date le parole di Renzi a ottobre può essere che il governo plauda a tale riassetto aziendale, visto l’entusiasmo dimostrato nei confronti del Dragone cinese. In questo tipo di “favole”, c’è sempre qualcuno a cui è riservato il lieto fine, ed è di solito l’amministratore delegato. «Tra stock option ordinarie e straordinarie – scrive Vincenzo Comito su Sbilanciamoci.info –, dividendi più o meno opportuni, adeguate remunerazioni del suo brillante lavoro di capo del gruppo, egli riesce a portare a casa nel tempo quasi altrettanti soldi del più illustre Marchionne». Attendiamo di sapere quale sarà il prossimo “gioiello di famiglia” a cambiare bandiera. Forse, come si vocifera, proprio Pininfarina?