Anche se sembra solo un lontano ricordo, anzi per molti fa parte di un passato sconosciuto, l’Italia ha conosciuto negli anni ’70 del Novecento una stagione in cui la satira ha visto crescere ed evolvere il proprio linguaggio e il proprio peso, fino a dare molto fastidio all’establishment che la tollerava (sempre meno). Si trattava di un linguaggio feroce, che negli anni è stato riassorbito e depotenziato, fino ad abbracciare la comicità accettabile di un (pur bravo) Maurizio Crozza. Riportiamo un estratto da un lungo articolo di Nicola Lagioia per Internazionale, in cui lo scrittore ripercorre le vicende di quegli anni. Nel brano che riprendiamo, l’autore intervista alcuni dei protagonisti di quel periodo, Vincenzo Sparagna, Riccardo Mannelli, Vincino e Valter Zarroli.
E oggi? Come mai, già spuntate in epoca berlusconiana, le armi della satira ci appaiono alla stregua di buffetti o al limite di scherzi vagamente fastidiosi per il potere, se paragonate a ciò che succedeva allora? È questa la domanda che ho rivolto a Sparagna, Mannelli, Vincino e Zarroli a un certo punto dell’incontro veneziano. Non volevo che la serata si riducesse a un amarcord.
«Il problema è che ciò che oggi comunemente chiamiamo satira, semplicemente, non è tale», mi hanno risposto all’unisono. «Rispetto il lavoro di uno come Maurizio Crozza», ha continuato Mannelli, «tecnicamente è molto bravo. Solo, come dire… è un altro campionato. Lì al massimo si tratta di umorismo. Siamo nel campo dell’accettabile».
Laddove proprio l’inaccettabile era il marchio di fabbrica di giornali come Il Male. Se il Gasparri o il Renzi o il Larussa o il Vendola o la Santanché di turno, per quanto feriti nell’arroganza, possono ridere con Crozza quando sono presenti in trasmissione mentre lui li prende in giro, per Andreotti era semplicemente inconcepibile anche solo far finta di dar di gomito alla propria faccia disegnata come un culo, o a La Malfa e Berlinguer in quanto rappresentati come contenitori di merda fumante, o ai sodali di Gardini davanti alla derisione del suo suicidio.
«È per questo che in tv mi rifiutavo di fare il comico che prendeva in giro i politici», ebbe a dire Massimo Troisi durante gli ultimi anni della sua vita, «perché se ti limiti a dire che Andreotti è gobbo e Fanfani è corto rischi di fare il loro gioco. Ti metti la coscienza a posto e aiuti la Dc ad apparire più democratica solo perché ti fa passare le battute. Se me lo facevano fare, significava che era innocuo, addirittura necessario a quel tipo di potere. Se un regime ti permette di giocare, significa che ci guadagna qualcosa. Le cose inaccettabili avrei potuto dirle a teatro, con un pubblico ridotto, e forse non farlo fu un errore. In tv avrei potuto fare il comico ufficiale. Me ne sarei vergognato».
«Il problema», ha continuato sempre più coraggiosamente Mannelli, questo disegnatore che ammiro sin da quando ero ragazzo, almeno quanto da ragazzo ammiravo il coraggio e lo spirito di iniziativa di uno come Sparagna, «il problema è che a noi ci hanno rovinato i grandi giornali. La stampa istituzionale. Avanti, ammettiamolo! Vincino, non dirmi che sul Foglio sei incisivo quanto lo eri sul Male. E del resto io stesso… non è che quando disegno su Repubblica faccio le cose che mi permettevo di fare ai tempi di Zac. Anche sul Fatto Quotidiano… nemmeno lì sono così incisivo, se proprio devo dire. Sui giornali è tutto depotenziato”.
«E lo vieni a dire a me! A me che ho sempre lavorato per la stampa indipendente!», è stata la reazione di Sparagna, che comunque – e questo è il bello di Sparagna – mentre protestava non smetteva mai di sorridere sornione.
«Sei comunque meno influente di allora. Anche diventare di nicchia può essere una colpa».
«Ma come!», è intervenuto Vincino, «vuoi dire che quando oggi disegniamo sui giornali, non abbiamo la libertà che ci serve?».
E Mannelli: «Anche se avessi tutta la libertà che mi serve, e magari a volte ce l’ho, è il contenitore che determina il messaggio. Si chiami Repubblica, o Corriere della Sera o Foglio o Fatto Quotidiano… sono loro a dettare il menù, le priorità, a fare da cornice, a metterti in un contesto che per forza di cose già spinge da una parte o dall’altra la vignetta che tu hai appena disegnato. Quella vignetta lì, che tu lo voglia o meno, inizia a prendere la forma del giornale che la ospita, a sposarne le battaglie, a seguirne suo malgrado la direzione. Nella stampa istituzionale siamo tollerati. Al limite siamo degli ospiti. E, come tali, sovrastati dalle regole del padrone di casa».
Già, la stampa. E la televisione: come non pensare a Vauro che quasi diventò una star ad Annozero?
Il discorso ufficiale, che all’occorrenza ospita i protagonisti della satira, siano bravi disegnatori, bravi imitatori, bravi attori di teatro, rischia di convertire ai propri codici anche ciò che dovrebbe risultargli indigeribile. Un primo aspetto del discorso riguarda proprio questo. E un secondo, molto più problematico, riguarda la presunta efficacia, per il 2015, di ciò che funzionava nel 1977.