Da quando hanno iniziato a intensificarsi (fino a concretizzarsi) le minacce di invasione della Russia nei confronti dell’Ucraina, in molti si sono chiesti, un po’ sbrigativamente, “dove sono finiti i pacifisti”.

Chi ricorda le grandi manifestazioni seguite alle azioni militari del passato, in particolare quelle da parte degli Stati Uniti (Iraq, Afghanistan, ecc.), ha notato una non altrettanto veemente protesta durante l’invasione russa di questi giorni.

Le piazze in realtà hanno iniziato ad animarsi dopo che l’esercito russo ha varcato i confini ucraini, come mostrano queste immagini. Manifestazioni contro l’attacco si sono viste anche nella stessa Russia, dove le persone hanno affrontato la possibilità molto concreta di essere arrestate, maltrattate e inserite in liste su cui nessuno di noi vorrebbe mai essere, pur di esprimere la propria contrarietà alla guerra. Questa è la mappa delle iniziative che si sono svolte in Italia sabato 26 febbraio. Qualcosa si muove, dunque, ed è probabile che sia solo l’inizio.

È bene però andare oltre l’aspetto più esteriore delle azioni pacifiste, e capire come si muove oggi un movimento che nel tempo ha saputo evolvere nelle strategie e negli strumenti di protesta. Interessante in questo senso l’intervista di Sara De Carli con Alessandro Marescotti, presidente di Peacelink, pubblicata qualche giorno fa su Vita. Marescotti, citando il noto pacifista e ambientalista Alexander Langer, parla del passaggio da un pacifismo “di testimonianza” a un pacifismo “umanitario”: «Un movimento per la pace che fosse fatto principalmente o esclusivamente di marce e petizioni per chiedere disarmo o condanna di certe aggressioni militari non avrebbe grande credibilità, soprattutto se si limitasse ad invocazioni generiche di pace cui nessuno potrebbe dirsi contrario, ma dalle quali non deriva nessun effetto concreto. Sono convinto che oggi il settore R&S, ricerca e sviluppo della nonviolenza, debba fare grandi passi in avanti e non debba fermarsi alle ormai tradizionali risorse».

Marescotti ammette però che, una volta che la guerra è in atto, è il momento di scendere in piazza: ««Adesso dobbiamo coinvolgere la gente, che non sa nulla delle armi nucleari ma ha paura, sia per dare un segno più visibile alla politica sia per dare voce a quel desiderio di pace che le persone hanno nel cuore», dice. «Il popolo della pace è vivo e presente, ci sono oltre 150 associazioni pacifiste e del volontariato che stanno facendo rete contro la guerra».

Ma qual è la road map del pacifismo di oggi? Marescotti spiega i temi su cui la sua associazione si impegna da anni, non tanto con le manifestazioni quanto con azioni volte a influenzare i decisori politici in senso pacifista: «Ci eravamo dati un’agenda con alcuni temi – ha spiegato –: gli F35, la produzione e il commercio delle armi, il Trattato per la proibizione delle armi nucleari: l’attività continuativa che è stata fatta su questi temi rappresenta il salto di qualità fatto dal movimento pacifista, qualcosa che ha fatto del movimento pacifista italiano un soggetto importante che non a caso ha partecipato del Nobel per la Pace assegnato nel 2017 all’Ican. Ma in questo momento occorre anche scendere in piazza […]. Sono due cose complementari, non alternative».

Il movimento pacifista, dunque, nel suo essere meno visibile di un tempo, ha in realtà trovato forza e nuove strategie. Certo il mondo non sembra andare nella direzione del disarmo e della diplomazia di questi tempi, ma di certo è importante il ruolo che il pacifismo ha sull’opinione pubblica, oltre che sui governi. Rendere la guerra sempre più “impensabile”, sul lungo periodo, potrebbe contribuire a ridurre sempre di più il suo verificarsi. «Il movimento per la pace ha sempre svolto una funzione importate nell’opinione pubblica – ha spiegato Marescotti –, siamo un soggetto chiamato a fare opinione: c’è una larga parte dell’opinione pubblica che in situazioni come queste si affida a noi pacifisti, si fida di noi perché non abbiamo conflitti di interesse, non tifiamo né per la Nato né per Putin né per Biden, non abbiamo rapporti con chi produce armi: abbiamo una terzietà rispetto agli attori del conflitto e possiamo essere una voce autorevole proprio perché non parteggiamo per nessuno».

(Foto di ctrlaltdileep su flickr, da una manifestazione del 2014 contro la precedente invasione russa in Ucraina)

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