Il sistema carcerario italiano risulta ancora fortemente problematico per tanti aspetti. Nonostante si siano fatti alcuni passi avanti negli ultimi anni, soprattutto grazie alla riduzione del sovraffollamento e al ricorso a misure alternative alla detenzione, restano molte questioni irrisolte. Alcuni dati aggiornati sono elencati in un “minidossier” dal titolo “Dentro o fuori”, pubblicato da Openpolis. Le statistiche sul tasso di recidiva sono difficili da calcolare perché richiedono un’osservazione del fenomeno su più anni, e implicano dunque un’elaborazione complessa. Le rilevazioni più recenti a disposizione risalgono a una ricerca del 2007, pubblicata sulla Rassegna penitenziaria e criminologica. L’indagine monitorava la condotta di ex detenuti rilasciati nel 1998 per osservare quanti, entro un arco di sette anni dalla scarcerazione, avrebbero ricevuto una nuova condanna penale. L’osservazione ha confermato l’impatto positivo sulla “rieducazione” del detenuto nel caso in cui una parte della pena consista in misure alternative al carcere, in questo caso l’affidamento ai servizi sociali. Il tasso di recidiva è stato infatti altissimo tra chi ha trascorso tutta la pena in carcere (68 per cento), mentre ha subito una contrazione enorme tra quelli che hanno scontato (in parte) diversamente la condanna (19 per cento). Certo il dato va considerato al netto del fatto che vi è stata una selezione a priori per stabilire quali detenuti affidare ai servizi sociali, che ha probabilmente premiato quelli che partivano più motivati verso la propria riabilitazione. Nonostante ciò, una differenza di 49 punti percentuali costituisce qualcosa di più di un’ipotesi.

Detto questo, bisogna rilevare che purtroppo, attualmente, «L’Italia è ultima, tra i grandi Paesi europei, nel ricorrere a modi diversi di scontare la pena o parte di essa». Nel resto delle democrazie del continente, infatti, la pena fuori dal carcere viene privilegiata in quanto ritenuta più efficace. «Mentre in Italia la maggioranza dei condannati finisce in carcere (55 per cento), in Germania sono solo il 28 per cento, il 30 per cento in Francia, il 36 per cento in Inghilterra e Galles e il 48 per cento in Spagna». Bisogna poi guardare anche alla qualità delle misure alternative. Se infatti a livello quantitativo ci sono stati indubbiamente dei grandi passi avanti rispetto a cinque anni fa (nel 2011 solo 239 detenuti vennero destinati a lavori di pubblica utilità, quest’anno siamo a 6.507; l’affidamento ai servizi sociali è passato da 9.778 a 12.630), il loro utilizzo è ancora confinato a un’idea di sanzione alternativa, più che di strumento di riabilitazione. «È il caso dei lavori di pubblica utilità, cui si ricorre quasi esclusivamente (94 per cento) per i reati del codice della strada». Il tipo di reato a cui viene applicata la pena alternativa dà la misura di quanta fiducia ci sia realmente in questo istituto.

Lavoro e formazione sono altri due punti critici del sistema. Nonostante non manchino le eccellenze e le storie positive, la formazione in carcere risulta più che dimezzata rispetto agli anni Novanta. L’8,32 per cento dei detenuti era iscritto a un corso di formazione nel 1992, ma il dato ha cominciato a diminuire progressivamente nei primi anni del secolo attuale, fino a toccare il minimo storico di 3,64 per cento nel 2015. Per quanto riguarda il lavoro, negli ultimissimi anni c’è stato un recupero, dopo i picchi negativi del periodo 2009-2013, ma siamo sempre sotto il 30 per cento (29,76) degli occupati, una quota più bassa del 1991. Non si tratta di un problema di posti di lavoro, perché nonostante tutto ci sono meno lavoratori che posti disponibili: «Complessivamente è occupato solo l’81 per cento dei posti di lavoro che sarebbero disponibili. In alcune produzioni, come le lavorazioni metalmeccaniche, il 58 per cento dei posti di lavoro disponibili non risulta occupato». Uno spreco di risorse e di opportunità che conferma quanto dicevamo in apertura, ossia che ci sono ancora molti margini di miglioramento nel sistema carcerario italiano.

I progressi fatti in termini di sovraffollamento sono un ottimo punto di partenza, ma ciò che si riuscirà a costruire da qui ai prossimi anni sarà la prova per capire se siamo davanti a timidi miglioramenti o all’inizio di un vero processo di riforma.

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