Foto di Denis Collette

Le Olimpiadi 2020 non si faranno a Roma. Lo ha deciso il governo, che ha rifiutato di firmare i documenti per la candidatura della Capitale ai prossimi Giochi. «Non ci sentiamo di prendere un impegno finanziario che potrebbe gravare in misura imprevedibile negli anni a venire», ha dichiarato Mario Monti. Per la cronaca, restano in corsa Baku, Doha, Istanbul, Madrid e Tokyo. A voi la scelta di quale tifare.

Meglio però tenere gli occhi puntati sull’Italia, e ragionare sul perché, in fondo, ce lo siamo meritati. Una bella mail arrivata ieri alla redazione di “Tutta la città ne parla”, su Radio3, sintetizza con efficacia la questione: «Saggia decisione di Monti. Lanciamo da subito le Olimpiadi della manutenzione, lo sa il cielo se Roma ne ha bisogno e in termini di ritorni economici credo che non sarebbero minori di quelli promessi dall’evento sportivo. Intanto risparmiamo sul logo, poi, nel 2020 potremo candidarci con ben altro titolo».

Su quest’ultima parte ci dirà il tempo se la previsione è corretta. Sui lavori di manutenzione possiamo invece dare ragione da subito all’ascoltatore. Sembra infatti che in Italia, per mettere mano ai servizi di una grande città e della cintura che le sta intorno, ci sia sempre bisogno di un grande evento. Salvo poi trovarsi sul groppone progetti tutt’altro che funzionali alla metropoli nella sua quotidianità post-evento. Ancora oggi paghiamo il conto dei Mondiali del ’90, mentre sono in corso le inchieste per i mondiali di nuoto di Roma del 2009; per non parlare del quartiere Eur, realizzato sempre nella Capitale per le Olimpiadi del 1960, che ancora oggi fatica a trovare una sua identità all’interno del tessuto urbano.

Ricordiamoci poi che i preventivi di spesa tendono spesso a lievitare (succede dappertutto, ma in Italia in maniera più accentuata), e che domani ci saremmo potuti trovare a dover sborsare cifre anche raddoppiate rispetto a quelle non firmate da Monti. Insomma, l’austerity non è la soluzione a ogni problema, ma di certo in questo caso le ragioni del cuore avrebbero fatto più danni che altro.

Dopo le constatazioni, lanciamo una proposta. Perché non comportarsi come se la candidatura fosse avvenuta? Se è vera la logica per cui il grande evento porta investimenti, privati e pubblici, per lo sviluppo della città, perché non porsi già ora nell’ottica di una futura candidatura, cercando di risolvere i numerosi problemi della città e mettendo le basi per il suo lancio tra le partecipanti al bando?

Il discorso si può poi allargare, oltre Roma e oltre le Olimpiadi. Se ogni comune ragionasse con logiche d’eccellenza avremmo città più efficienti, più vivibili, più belle. Oltre ai big events si parla spesso delle grandi opere come altro motore dello sviluppo. Perché creano posti di lavoro, spostano capitali verso la produzione, fanno muovere l’economia. Ma poi talvolta non portano un servizio realmente utile alla collettività, che dovrà invece scontarne i costi. E allora iniziamo a togliere questo aggettivo, “grande”, dagli slogan e dalle nostre menti. Preoccupiamoci di gestire in maniera responsabile i piccoli eventi, le piccole opere.

Non è dalle dimensioni fisiche che si misura l’importanza di un intervento, ma dalla sua ricaduta sociale in rapporto ai costi sostenuti. Non vogliamo passare per disfattisti,se le cose sono andate storte una volta non è detto che debbano andare male sempre. Ma guardiamoci allo specchio, e cerchiamo di partire da ciò che vediamo. Nessuno si presenterebbe a un colloquio di lavoro o a un appuntamento con i capelli scarmigliati, una macchia sul vestito e la barba sfatta. Quando ci sentiremo davvero un Paese presentabile, allora saremo pronti per qualsiasi piccolo o grande evento.