“Élite contro popolo” è una delle nuove contrapposizioni che fanno parte del racconto dell’attualità politica. Ma cosa sono esattamente le élite, a cosa servono, e come si possono selezionare? Tre ipotesi del filosofo Roberto Casati, pubblicate sulla Domenica del Sole 24 Ore.

Circola l’idea che un preteso «popolo» non veda di buon occhio le pretese «élite», e che i destini politici delle nazioni e del mondo dipenderanno nei prossimi decenni da questo sentimento diffuso di distanza se non di disprezzo. L’idea, come molte idee che circolano, è abbastanza confusa e ambigua. Sicuramente non corrisponde al modo in cui molte persone giudicano l’eccellenza, che è la caratteristica definitoria delle élite. Per esempio, più o meno tutti riconoscono che sia meglio, per un club, acquistare calciatori d’élite piuttosto che farli scegliere dai soci in un voto elettronico in un’elezione cui chiunque si può candidare, anche dilettanti, e anche non calciatori. «Vi presento il nuovo Milan: oltre a Romagnoli, Zapata, Montolivo, abbiamo anche il signor Martellini e suo cugino Scacabarozzoli. Li ha scelti una votazione online sul sito del club».

Nessuno di noi manderebbe i propri figli a una scuola i cui insegnanti non sono stati formati come si deve, ma scelti dagli altri genitori con un voto elettronico in un’elezione cui chiunque si può candidare, anche persone che non hanno mai insegnato o che dichiarano che non insegneranno una volta elette. Lo stesso vale per chirurghi, imprese di pulizie, ristoranti, e via dicendo. Un minimo di elitismo ci permette di delegare con una certa tranquillità la maggior parte delle cose che da soli non riusciamo o non abbiamo il tempo di fare, di apprezzare delle belle partite di calcio piuttosto che di sghignazzare a vedere Scacabarozzoli in affanno, cosa che va bene una volta, per cinque minuti, ma poi viene a noia. Non si capisce perché si voglia altro che delle élite al governo. Come ha detto molto bene una volta uno studente a un incontro alla Biennale Democrazia, e faccio mie le sue parole, mi auguro di essere governato da qualcuno che sia molto, ma molto più bravo, competente, organizzato e lungimirante di me. Non mi accontenterei di nulla di meno, no? Come non vorrei essere operato da un chirurgo che è meno bravo di me a maneggiare il bisturi.

Quindi, penso che tutti siamo d’accordo che le élite servono. Il prossimo passo è come le si selezioni, ovvero come si entri a far parte di un’élite, e non solo nel senso di scroccare un passaggio sul carrozzone, ma proprio come si diventa eccellenti al punto da meritare il blasone ed eventualmente la fiducia altrui, compresa quella di un Paese. Ci sono, per semplificare, tre strade, che hanno costi molto diversi e anche rapporti tra costi e risultati decisamente diversi. La prima è la selezione darwiniana: eleggiamo chi ci pare, al limite tirando a sorte, e vediamo come se la cava. Se manda il Paese a rotoli, passiamo al seguente, e così via finché troviamo quelli giusti, prima o poi qualcuno di bravo salta fuori. La seconda strada è la gavetta: facciamo fare agli eletti una lunga strada nei partiti, da portaborse a sindaci a presidenti di partecipate, a un certo punto avranno accumulato abbastanza competenze e potremo dar loro le chiavi dell’auto senza (troppe) preoccupazioni. La terza strada è la formazione: creiamo dei percorsi di studio universitari di alto livello e peschiamo nel vivaio degli studenti più bravi, ogni tanto ci sbaglieremo pure, ma nella norma potremo andare a occhi chiusi.

La selezione darwiniana ha ovviamente costi troppo elevati; il tempo è poco, le risorse pure, e mandare il Paese allo sfascio non è che si possa fare in modo iterativo più di un paio di volte. La gavetta c’era, ma non sembra esserci più di tanto, forse il suo ultimo grande esponente è proprio Renzi. Nel vuoto lasciato dalla gavetta, la formazione alla fine si rivela un metodo abbastanza efficace, con costi sicuramente meno elevati di quelli darwiniani.

L’altro elemento di confusione concettuale, che ormai non dovrebbe più essere tale, ma che non si finisce mai di dover sottolineare, riguarda la differenza tra saper vincere un’elezione e saper governare un Paese. Da un certo punto di vista le campagne elettorali avrebbero anche la capacità di far emergere i competenti e le brave, e così è stato per molto tempo: vincere un’elezione vuol dire essere organizzati, essere in grado di mobilitare, ragionare strategicamente, tutte qualità che possono poi servire per governare. Ma nell’epoca dei messaggi di 140 caratteri la vittoria sembra essere diventata appannaggio di chi riesce a dire cose molto speciali in momenti molto speciali: le cose che bucano il muro dell’attenzione e rimestano il calderone dell’emozione, almeno fino al prossimo messaggio di 140 caratteri. Le elezioni non sono più un soggetto per le scienze politiche, ma per i media studies.

Il tema, peraltro, era stato prefigurato da Il candidato, un film degli anni ’70, in cui Bill McKay (Robert Redford) vince un’elezione al Senato costruendo e reinventando una campagna opportunistica con l’aiuto di Marvin Lucas (Peter Boyle), uno specialista di elezioni. La frase che chiude il film è la domanda di McKay a Lucas la sera della vittoria: «E ora che cosa facciamo?» La risposta non era ancora nota negli anni ’70, ma adesso è chiarissima: facciamo subito un’altra campagna elettorale! Governare è un lusso che pochi si possono permettere, e non a caso i partiti anti-establishment faticano ad assumere il ruolo di governo, l’attrazione di una nuova campagna elettorale è del tutto razionale dal loro punto di vista, dato che come sempre uno finisce col fare e rifare quello che sa già fare.

(Foto di Marc Wathieu su flickr)