Gli empori solidali stanno godendo di un certo successo nel nostro Paese, e sotto molti aspetti rappresentano un modello interessante per immaginare possibili sviluppi nel mondo del volontariato in Italia. Stefano Trasatti, responsabile comunicazione di CSVnet (l’associazione nazionale dei Centri di servizio per il volontariato) ha tracciato sulla rivista Gli Asini un’efficace analisi del Rapporto presentato dall’associazione e da Caritas italiana a dicembre dello scorso anno. Ripercorriamo in sintesi le informazioni principali contenute nel suo articolo.

Che cosa sono gli empori solidali

«Sperimentati alla fine degli anni novanta tra il Veneto e la Liguria, divenuti un modello dal 2008 grazie anche a don Luigi Di Liegro, che aprì a Roma il primo della Caritas presto seguito da Prato e Pescara, gli empori sono letteralmente esplosi negli ultimi quattro anni: a dicembre 2018 erano 178, tre quarti dei quali aperti dal 2015 in poi; e almeno altri 20 saranno inaugurati quest’anno».

A chi sono rivolti

«Gli empori sono rivolti a persone e famiglie in temporanea difficoltà economica, e sono definiti tali quando corrispondono al seguente identikit: 1) hanno l’aspetto e il funzionamento di negozi o piccoli supermercati; 2) distribuiscono gratuitamente beni di prima necessità (alimentari, ma anche per l’igiene e l’infanzia), resi disponibili da donazioni o acquisti, che si possono scegliere liberamente e “pagare” con tessere a punti o simili; 3) sia i beni che i beneficiari sono individuati grazie a una rete territoriale di vari soggetti privati e pubblici: imprese, cittadini, associazioni e parrocchie per l’approvvigionamento; centri d’ascolto e servizi comunali per verificare le condizioni di indigenza; 4) accanto al sostegno materiale propongono, direttamente o indirettamente, servizi di orientamento al lavoro, formazione (anche sull’uso del denaro) e inclusione sociale (terapia familiare, assistenza legale ecc)».

Perché sono un modello interessante

Trasatti individua cinque motivi per cui l’esperienza degli empori solidali è interessante per il futuro del volontariato in Italia. Eccoli in sintesi:

  1. «Nella maggioranza dei casi gli empori sono l’evoluzione della vecchia (e ancora diffusa) distribuzione delle “borse-spesa”. Vuol dire che sempre più si cerca di restituire dignità ai destinatari, cancellando le file umilianti e restituendo a essi il diritto di scegliere i prodotti di cui hanno veramente bisogno. Rispetto al tradizionale approccio caritatevole è una evoluzione culturale non da poco: rappresenta il riconoscimento del “povero” come persona che può risollevarsi dalle difficoltà, che mantiene le sue abilità, che ha ancora il diritto di avere dei gusti, di essere trattato come un normale consumatore, e anche di rifiutare un prodotto se non gli piace».
  2. «Secondo motivo: gli empori sono una grande storia di volontariato. Tra chi li gestisce sono pochissimi gli operatori retribuiti, per altro presenti in meno della metà degli esercizi. Ogni giorno ci lavorano invece a titolo gratuito più di 3.700 persone. Un “volontariato competente”, come lo definisce l’indagine, che ha accettato di misurarsi anche con gli adempimenti propri della gestione di un negozio […] e con l’impegno non facile di far coincidere la funzione di “semplice commesso” con quella di operatore sociale.
  3. «Per la loro stessa necessità di poggiarsi su un’organizzazione semiprofessionale, o quantomeno non precaria, gli empori sono un osservatorio prezioso sull’evoluzione di alcune dinamiche dell’impoverimento. I beneficiari di queste strutture sono stati finora 99 mila famiglie, per un totale di 325 mila persone (56 per cento italiani) dall’età media molto bassa: solo il 6 per cento aveva più di 65 anni, il 27 per cento meno di 15; pochissimi i senza tetto».
  4. «Se a promuovere (o co-promuovere) più della metà degli empori sono le Caritas, in quasi tutti si registra il protagonismo di realtà associative di ogni genere (600 in totale) e comunali (più di 300). Reti vere, composte da soggetti che hanno linguaggi diversi ma che sono disponibili a incontrarsi su un progetto comune».
  5. «Molti responsabili degli empori dichiarano di essere andati a “imparare” da altri che li avevano aperti prima di loro, anche in regioni lontane. È un modo di operare che è sempre stato presente nel terzo settore, ma prevalentemente all’interno di singole reti o matrici ideali: ci si copia, cioè, guardando i propri simili, spesso dentro una sana competizione. Qui invece sembra di notare l’umiltà di apprendere da chi ha già applicato un modello di intervento efficace, da qualunque storia di impegno sociale esso provenga, unita alla fantasia nell’adattarlo al contesto locale».

Foto dal sito di Empori solidali Emilia-Romagna