Da tempo sentiamo ripetere che il SARS-CoV-2 diventerà, prima o poi, “endemico”. Come a dire che smetterà di essere un problema, che sarà qualcosa con cui più o meno tutti faremo i conti senza grossi problemi, come il raffreddore. A ben vedere, le cose non stanno proprio così.

Ne ha scritto su Nature Aris Katzourakis, scienziato che studia l’evoluzione dei virus, notando che «la parola “endemico” è diventata una delle più abusate della pandemia. E molte delle ipotesi errate fatte al riguardo incoraggiano un compiacimento fuori luogo: non significa che il COVID-19 avrà una fine naturale».

Per un epidemiologo, spiega Katzourakis, un’infezione endemica è un’infezione in cui i tassi complessivi sono stabili: non aumentano né diminuiscono. Tecnicamente, un virus è endemico quando il numero di persone che potrebbero ammalarsi in una popolazione è circa uguale al numero di individui che un individuo infetto contagerebbe assumendo una popolazione in cui tutti potrebbero ammalarsi. I comuni raffreddori sono endemici, è vero, ma lo sono anche la malaria e la polio in certe aree. Lo era anche il vaiolo, prima che fosse eliminato dai vaccini.

In altre parole, una malattia può essere endemica e allo stesso tempo diffusa e mortale. La malaria ha ucciso più di 600 mila persone nel 2020, scrive Katzourakis. Dieci milioni si sono ammalati di tubercolosi nello stesso anno e 1,5 milioni sono morti.

Endemico, in altre parole, non significa che l’evoluzione abbia in qualche modo “addomesticato” l’agente patogeno in modo che la vita torni semplicemente alla “normalità”.

«Come virologo evolutivo, sono frustrato quando i politici invocano la parola “endemico” come scusa per fare poco o niente – scrive Katzourakis –. C’è di più nella politica sanitaria globale che imparare a vivere con rotavirus, epatite C o morbillo endemici».

Affermare che un’infezione diventerà endemica non dice nulla su quanto tempo ci vorrà per raggiungere la stabilità, su quali livelli di diffusione e mortalità si assesterà e quali categorie di persone saranno più colpite. Né la stabilità, una volta raggiunta, è garantita per sempre: ci possono sempre essere nuove “ondate” dirompenti date da infezioni endemiche, come si è visto con l’epidemia di morbillo negli Stati Uniti nel 2019. Le politiche sanitarie e il comportamento individuale determineranno che forma prenderà, tra le molte possibili, il COVID-19 quando sarà endemico.

Lo stesso virus può causare infezioni endemiche, epidemiche o pandemiche – spiega Katzourakis –: dipende dall’interazione tra il comportamento di una popolazione, la struttura demografica, la suscettibilità e l’immunità, oltre all’emergere di varianti. Condizioni diverse in tutto il mondo possono permettere l’evoluzione di nuove varianti, che possono generare nuove ondate di epidemie. Queste dinamiche sono legate alle decisioni politiche di ciascuna regione mondiale e alla capacità di rispondere alle infezioni. Anche se una regione raggiunge un equilibrio – che sia di bassa o alta malattia e morte – questo potrebbe essere alterato da una nuova variante.

C’è un diffuso e ottimistico malinteso secondo cui i virus si evolvono nel tempo per diventare più benigni. Non è così – scrive Katzourakis –: non c’è un esito evolutivo predestinato per cui un virus diventi più benigno, specialmente quelli, come il SARS-CoV-2, in cui la maggior parte della trasmissione avviene prima che il virus causi gravi malattie. Si consideri che Alpha e Delta sono più virulenti del ceppo trovato per la prima volta a Wuhan, in Cina. La seconda ondata della pandemia di influenza del 1918 fu molto più letale della prima».

Katzourakis indica le vie da seguire, a suo avviso, per spostare l’esito di questa vicenda a favore dell’umanità. «In primo luogo – sostiene – dobbiamo mettere da parte il pigro ottimismo. Secondo, dobbiamo essere realisti sui probabili livelli di morte, disabilità e malattia causati dal virus endemico. Gli obiettivi fissati per la riduzione dovrebbero considerare che il virus in circolazione rischia di dare origine a nuove varianti. Terzo, dobbiamo usare, a livello globale, le armi formidabili che abbiamo a disposizione: vaccini efficaci, farmaci antivirali, test diagnostici e una migliore comprensione di come fermare il virus attraverso l’uso di mascherine, distanza, ventilazione e filtraggio dell’aria. Quarto, dobbiamo investire in vaccini che proteggano da una gamma più ampia di varianti».

A questi obiettivi, Katzourakis ne aggiunge un quinto, ossia raggiungere l’equità nella distribuzione dei vaccini: «Più un virus si replica, maggiore è la possibilità che nascano varianti problematiche, molto probabilmente dove la diffusione è più alta. La variante Alpha è stata identificata per la prima volta nel Regno Unito, la Delta è stata trovata per la prima volta in India e la Omicron nell’Africa meridionale: tutti luoghi in cui la diffusione è dilagante. Pensare che l’endemicità sia inevitabile e i suoi esiti lievi non è solo sbagliato, è pericoloso: pone l’umanità di fronte a molti altri anni di malattie, comprese imprevedibili ondate di epidemie. È più produttivo considerare quanto male potrebbero andare le cose se continuiamo a dare al virus l’opportunità di superarci. Avremo così più strumenti per assicurarci che ciò non accada».

(Immagine di visuals su Unsplash )

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