Un articolo pubblicato su La Stampa il 14 giugno, a proposito del doppio femminicidio commesso nella provincia di Modena, si conclude così: «Un crimine che, come quasi tutti gli altri di questo genere, aveva dato le sue avvisaglie». La scelta di chiudere così l’articolo risponde a esigenze drammaturgiche tipiche del giornalismo italiano (se un articolo non finisce con una chiusura “a effetto” sembra gli manchi qualcosa). Sarebbe però più corretto inserire tale considerazione all’inizio dell’articolo, farne il centro tematico, perché è lì che si nasconde uno dei problemi più gravi che caratterizzano il fenomeno della violenza contro le donne in Italia: il fatto che le vittime conoscano quasi sempre i loro assassini, e che anzi questi siano spesso loro parenti, partner o ex-partner. Non solo: un’altra cosa che accomuna le vittime di femminicidio è che spesso avevano denunciato i loro aggressori in diverse occasioni. Ne avevano paura, sapevano cosa stavano rischiando (spesso non solo loro ma anche altri componenti della famiglia) perché i loro aggressori avevano dichiarato in più momenti le proprie intenzioni, si erano dimostrati pericolosi e pronti a qualsiasi gesto.
C’è però qualcosa che non va nei percorsi che dovrebbero tutelare le donne vittime di violenza, se poi puntualmente questi omicidi si ripetono. L’articolo in questione fa notare che Gabriela e Renata Trandafir sono le vittime di femminicidio numero 39 e 40 dall’inizio del 2022. Questo tragico evento, come tanti altri, è stato preceduto da numerose denunce da parte di entrambe le sorelle per maltrattamenti e atti persecutori. Spesso si dice che uno dei problemi (e lo è sicuramente) è che molte donne non denunciano le violenze subite, e questo le lascia esposte ad altre violenze. Ma, anche quando la denuncia avviene, sembra che la giustizia non sia efficace nell’assicurare protezione a chi vi si rivolge.
Ogni episodio di questo tipo rappresenta il fallimento delle istituzioni che dovrebbero offrire sicurezza a quelle donne. Talvolta il problema è la giustizia, come quando i giudici scelgono di non separare i padri dai figli nonostante accertati e reiterati maltrattamenti contro le madri (e spesso contro i figli stessi). Si condannano così le donne a mantenere aperto un canale con i loro aggressori, per giunta legittimati dalla giustizia. Talvolta è una mancanza di preparazione o di organico da parte delle forze dell’ordine il problema, che porta a ritardare o a mancare del tutto un intervento che può salvare vite umane.
Sono aspetti su cui si deve intervenire il prima possibile, affinché il conteggio dei femminicidi si fermi il prima possibile e questo 2022 non trascorra tra un episodio e l’altro, intervallati da brevi momenti di raccoglimento e costernazione. Vanno potenziati i centri antiviolenza, ossia le strutture in cui si concentrano competenze ed esperienze che possono aiutare nel concreto le donne a uscire da dinamiche di violenza. La loro distribuzione sul territorio italiano è molto variabile e, mentre ci sono delle aree più coperte, diverse altre sono quasi completamente sprovviste di tali strutture.
Ma per investire bisogna sapere dove si concentrano i problemi. E infatti un altro aspetto su cui intervenire è la mancanza di dati completi sul fenomeno della violenza contro le donne. «Sebbene la violenza di genere sia un problema serio in tutto il mondo, i dati ufficiali dei governi sono spesso imprecisi, incompleti o inesistenti – si legge su Science –. Questi “dati mancanti” hanno conseguenze reali, afferma Helena Suárez Val, ricercatrice dell’Università di Warwick che lavora al progetto di raccolta dati Feminicidio Uruguay avviato da alcune attiviste. “Se sapessimo quanto spesso accade, dove accade, quali sono le motivazioni, aiuteremmo lo Stato a indirizzare le risorse e a creare politiche pubbliche”».
(Foto di Mika Baumeister su Unsplash)
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