di Federico Caruso
Le morti per arresto cardiaco in Italia si attestano ogni anno tra le 60mila e le 70mila. Una cifra impressionante, se pensiamo che oggi tutte le attenzioni sono puntate sul coronavirus, al quale nel 2020 sono stati attribuiti poco più di 55.500 decessi. Sia chiaro, l’attenzione e gli sforzi per contrastare la pandemia sono necessari e più che giustificati. Ma per ridurre il numero dei morti per arresto cardiaco in maniera significativa basterebbe un investimento tutto sommato contenuto, necessario a installare un gran numero di defibrillatori in luoghi pubblici (piazze, stazioni, uffici pubblici, ecc.) o privati (aziende, alberghi, case, ecc.) e a diffondere la cultura del soccorso tra la popolazione. A rendere la situazione paradossale ci sono due dati: da un lato il caso pilota della città di Piacenza, che fin dal 1998 con il “Progetto Vita” ha previsto l’installazione di 1.057 defibrillatori tra città e provincia e la formazione di 55mila volontari, permettendo finora di salvare la vita a 127 persone. Dall’altro il fatto che c’è un disegno di legge, già approvato alla Camera e fermo da quasi un anno e mezzo al Senato, che se sbloccato permetterebbe di estendere a tutto il territorio nazionale quanto fatto a Piacenza. La copertura finanziaria richiesta dal disegno di legge è modesta, come si diceva: 4 milioni di euro. Ne abbiamo parlato con Mirco Jurinovich, operatore del 118 dal 1992 (quando ancora il servizio non si chiamava così). Jurinovich, 54 anni di Cerro Maggiore (Milano), è impegnato su questo tema dalla fine degli anni ’90. Con la sua associazione, 60mila vite da salvare, da dieci anni si occupa di fare informazione sulle morti per arresto cardiaco e ci spiega che «quando c’è un malore al cuore, pochi secondi valgono una vita: ogni minuto che passa la speranza di vita della persona diminuisce del 10 per cento».
La protesta di Jurinovich
Mirco Jurinovich ha preso una decisione controversa quanto difficile per cercare di sbloccare questa legge: rifiutare la sua dose del vaccino anti-Covid-19, quando sarà chiamato per la somministrazione. Un’azione simbolica e destinata sicuramente a fare discutere, ma utile a rappresentare un problema che non si può più ignorare. Jurinovich ha inviato un messaggio al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nei giorni scorsi, per portare alla sua attenzione il problema e la sua iniziativa: «In qualità di operatore del 118 di Regione Lombardia e di presidente dell’associazione 60milavitedasalvare – ha scritto –, rinuncerò alla dose di vaccino a me destinata fintantoché il disegno di legge 1441 non verrà definitivamente approvato e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale».
Dopo avere vissuto da vicino tante delle emergenze che hanno attraversato il nostro Paese negli ultimi decenni, Jurinovich è stato anche tra gli operatori inviati nella prima “zona rossa” d’Italia, Codogno. Ci spiega che il coronavirus ha reso la situazione dei decessi per arresto cardiaco ancora più complessa. Non solo perché il Covid-19 aumenta il rischio di arresto cardiaco, ma anche perché le procedure di precauzione straordinarie che gli operatori devono rispettare quando si muovono per prestare soccorso nel contesto pandemico allungano ulteriormente l’intervallo di tempo che passa dalla chiamata all’intervento. Da qui l’importanza di avere degli strumenti con cui prestare soccorso immediato alle persone che subiscono un attacco di cuore.
Come funziona un defibrillatore
Con la sua associazione, Jurinovich ha permesso la distribuzione di 350 defibrillatori nell’Altomilanese. Attualmente a Legnano ce ne sono 80 tra scuole e altri luoghi ad alta affluenza. Quando pensiamo ai defibrillatori non dobbiamo immaginare quelli che siamo abituati a vedere nei film e nelle serie televisive ambientate nei reparti di pronto soccorso. Quelli attualmente in uso nei luoghi pubblici sono automatici o semi-automatici. Si tratta di applicare degli elettrodi (simili a cerotti) sul corpo della persona e accendere il dispositivo. Sarà poi il software a stabilire se è in corso un arresto cardiaco, e quindi a dare la possibilità all’utente di far partire la scarica elettrica, oppure no. Questo per i dispositivi semi-automatici, mentre in quelli automatici l’operatore non deve nemmeno prendersi la responsabilità di premere il pulsante: se il software stabilisce che è necessaria la scarica, la fa partire autonomamente. Il guaio, ci spiega Jurinovich, è che per utilizzare i defibrillatori del primo tipo, cioè quelli attualmente diffusi in Italia, è necessaria una formazione. È un percorso a cui dal 2001 possono accedere anche i cosiddetti “laici”, cioè persone che non fanno parte dell’ambito sanitario. Questo percorso formativo ha raggiunto una certa uniformità solo negli ultimi anni, mentre prima poteva prevedere 5 ore di formazione come 32. Oggi c’è una certa omogeneità e i corsi tendono a essere da 5 ore. In ogni caso, l’esigenza di una formazione richiede che, quando si verifica un possibile arresto cardiaco, non solo ci sia un defibrillatore nelle vicinanze, ma anche una persona formata all’utilizzo. Il disegno di legge di cui parlavamo introdurrebbe anche la possibilità di accedere liberamente agli apparecchi, che come dicevamo non danno a chi li usa alcuna discrezionalità sul loro utilizzo: è sempre la macchina a decidere se è necessaria o meno la scarica. Purtroppo l’instabilità politica italiana incide anche sull’esito di leggi importanti come questa, in cui una firma può salvare la vita di migliaia di persone. Ci auguriamo che il messaggio arrivi nelle sedi dovute.
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