Forse vale più per gli Stati Uniti, ma ormai è abbastanza generalizzata una certa “dittatura del buonumore” sul posto di lavoro. In generale, si fa fatica ad accettare, condividere e accogliere la negatività nelle relazioni, soprattutto quelle professionali. Come si legge in un lungo articolo di Silvio Lorusso uscito su Not, però, mentre la negatività viene stigmatizzata sempre di più, i disturbi legati ad ansia e depressione sono in continua crescita nel mondo. «Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità si tratta di una vera e propria epidemia: tra il 1990 e il 2013 il numero di persone che soffrono di ansia e depressione è raddoppiato, raggiungendo il 10 per cento della popolazione globale, una situazione che ha inoltre profonde ricadute economiche: 1 trilione di dollari all’anno di perdite. Come affrontare questa situazione? Piuttosto che agire sulle condizioni ambientali che contribuiscono alla diffusione di questi disturbi psichici, si mira spesso a intervenire a livello individuale, ignorando o addirittura negando la loro dimensione sociale. La mente diventa così un campo di battaglia su cui si applicano varie strategie terapeutiche».
I diversi approcci che spingono alla positività-a-ogni-costo attingono spesso dal mondo del self-help e dell’imprenditoria, dove un certo atteggiamento mentale sempre orientato in senso positivo è considerato fondamentale per il successo. Non per questo si nega il fallimento: in una estenuante ricerca di positività, però, questo viene visto come opportunità da cui imparare e da cui costruire i successi futuri.
Si è diffuso l’assioma secondo cui il successo delle persone è dato all’1 per cento dal talento e dalle inclinazioni innate (aptitude) e al 99 per cento dall’atteggiamento (attitude). Un rapporto che non lascia spazio a dubbi: o sei positivo, sempre e comunque, o sei destinato a soccombere. «Nella formula 1/99 per cento i vantaggi e gli svantaggi ambientali sono irrilevanti: ricco o meno, ciò che fa la differenza è il tuo atteggiamento: se lo vuoi davvero, puoi e devi averlo. Ne deriva che l’intero spettro della negatività – dalla tristezza alla paura, passando per il cinismo e la rabbia – risulti inammissibile e intrinsecamente distruttivo. Le critiche sono tollerate, ma solo quelle costruttive, ovvero le critiche prive o private di negatività. E mentre queste vengono ripulite e riabilitate, cresce il sospetto che non si tratti affatto di critiche. Ciò diventa particolarmente evidente nel momento in cui la maggior parte di relazioni si legano in un modo o nell’altro all’ambito lavorativo. In un contesto in cui la positività funge da lubrificante sociale, i cosiddetti naysayer sono malvisti in quanto ne minacciano il fragile equilibrio. Ma non era Peter Drucker a sostenere che il compito dell’imprenditore è quello di “turbare e disorganizzare”? Nel conformismo attitudinale, l’imprenditorialità diffusa nega se stessa».
Negarsi il diritto a stare male, a essere di malumore, o a soffrire per un avvenimento o un insuccesso senza sentirsi continuamente in obbligo di trovare la nota positiva, è il primo passo verso la dissociazione tra la realtà e il nostro mondo mentale. Di più: se siamo continuamente presi a reinterpretare i fatti in un modo che ci porti a trovare l’aspetto positivo, il rischio è di colpevolizzarsi nel momento in cui non ci si riesce.
Se ognuno è artefice del proprio successo, lo è anche del proprio insuccesso. La responsabilità individuale supera così qualsiasi realtà fenomenica. «Il pensiero positivo ingiunge l’esegesi del reale: ogni fatto negativo è tale solo in apparenza, tutte le crisi celano un’opportunità. Ti hanno licenziato? Sii grato e non ti lamentare, altrimenti le opportunità non si manifesteranno, anzi sarai tu stesso a scomparire, dato che uno dei corollari del pensiero positivo è quello di rimuovere la negatività attorno a sé. Insomma, il pensiero positivo non è altro che un elaborato esercizio di autoinganno che funge da strategia di sopravvivenza. A tal proposito, Ehrenreich lancia un monito: “Il rovescio della positività è […] la dura insistenza sulla responsabilità personale: se la tua attività fallisce o il tuo lavoro viene eliminato, deve essere perché non ci hai provato abbastanza, perché non hai creduto fermamente nell’inevitabilità del tuo successo”».
Difficile, d’altra parte, trovare un’utilità nell’inclinazione negativa. Ma non tutto è dimostrabile o confutabile con prove incontrovertibili. L’unica, insoddisfacente conclusione che si può trarre è che i sentimenti negativi sono parte dello spettro delle emozioni umane, e quindi probabilmente è bene accoglierli, piuttosto che negarne sistematicamente l’esistenza.