di Pierangelo Colavito

Come descrivere il momento che stiamo attraversando? Drammatico, difficile, unico, inedito, particolare, incerto. Da quando è iniziata la pandemia di coronavirus, il repertorio di aggettivi a nostra disposizione si è molto inflazionato. Da anni siamo abituati a un linguaggio mediatico votato all’enfasi, all’emergenza continua. Preferisco dunque soffermarmi su altri movimenti, che non siano quelli delle emozioni, per tracciare una linea, ancora una volta, tra ciò che succede dentro Avis e ciò che succede fuori. In questi mesi la società (a livello mondiale, ma in particolare in Italia) ha vissuto un continuo oscillare tra coesione e frammentazione, tra unione e divisione. Per fare fronte all’incedere della pandemia e abbattere la curva dei contagi, fin da marzo ci è stato chiesto di “restare a casa”, cioè di ridurre al minimo i contatti sociali al fine di impedire al virus di usare i nostri corpi per replicarsi e diffondersi. È una strategia che paga in termini di contenimento dell’epidemia, seppure con costi molto pesanti a livello economico e sociale.

Come ormai abbiamo imparato, quella del distanziamento è però una misura che funziona solo se rispettata da tutti. Per riassumere in un paradosso: dobbiamo dividerci restando uniti, e viceversa. Tutto si tiene se ciascuno fa il suo: una collaborazione basata su una sommatoria di impegno e responsabilità individuali. In questa apparente schizofrenia, vorrei provare a trovare un elemento utile anche a chi, come il sottoscritto, si è preso l’impegno di far funzionare la macchina associativa. Avis è una realtà particolare, che se osservata in superficie sembra funzionare proprio nella “dissociazione” appena descritta. A causa della peculiarità della nostra missione, quella di promuovere il dono del sangue, sono rari i momenti in cui i nostri donatori e donatrici possono incontrarsi e conoscersi direttamente. Il sistema funziona perché “ciascuno fa il suo”, impegnandosi a donare con regolarità e osservando uno stile di vita compatibile con la donazione. Senza il carburante continuo della solidarietà di donatrici e donatori, noi “meccanici” dell’associazione saremmo alle prese con un macchinario fermo e arrugginito.

Abbiamo intitolato “Noi ci siamo” l’ultimo numero del nostro periodico associativo, proprio per sottolineare l’afflato unitario che ha caratterizzato il momento forse più difficile per l’Avis di Legnano dall’inizio della pandemia, ossia la fase iniziale. Quella in cui non sapevamo quasi nulla del virus, di come si trasmette, di come proteggere al meglio se stessi e gli altri (sulle inefficienze di chi avrebbe dovuto fornirci con tempestività informazioni e materiale sorvolo). Abbiamo dato la parola ai nostri dipendenti e volontari, che in quella fase (come sempre, ma in quel caso ancora di più) hanno interpretato al meglio un richiamo all’unitarietà che ci ha permesso di non chiudere neanche per un giorno, accogliendo la generosità dei donatori e delle donatrici con un impegno encomiabile, per il quale li ringrazio nuovamente.

Per affrontare i momenti straordinari, bisogna concentrarsi su quelli ordinari: se restare uniti è la norma, lo sarà ancora di più durante un’emergenza; se nella quotidianità regnano le divisioni e la contrapposizione per fazioni, al momento del bisogno tali fratture diventeranno spaccature insanabili. Questa lunga premessa per arrivare a dire che, anche nelle Avis di coordinamento e nell’imminente fase di rinnovo delle cariche associative, vorrei che si tenesse ben presente questo principio. Nello scegliere i soggetti migliori a cui affidare la guida dei diversi livelli associativi, dovremo assicurarci che siano persone in grado di unire e fare sintesi, di fare associazione e non dissociazione. Gestire, magari anche bene, il proprio pezzettino di lavoro, non è sufficiente se al contempo non si è in grado di dialogare con gli altri rappresentanti – interni ed esterni ad Avis – a tutti i livelli. In questo caso non basta che ciascuno “faccia il suo”. È necessario un talento in più, uno sforzo in più.

Candidarsi a ricoprire un ruolo di responsabilità dentro l’associazione non è un percorso obbligato. Non ci sono carriere predefinite e inevitabili. Ci sono certamente delle qualità, dei requisiti che si devono pretendere da ogni candidato e da ogni eletto. Competenze che si potranno migliorare e affinare con l’esperienza, ma che devono essere già presenti e mature al momento della candidatura. Tra queste, appunto, la capacità di unire. Che non significa convincere tutti o raggiungere a tutti i costi l’unanimità, ma sapere intraprendere percorsi di collaborazione che tengano conto del contributo di ognuno, in maniera costruttiva, per un’associazione plurale al suo interno e compatta nella sua azione.

(Foto di NEOSiAM 2020 su Pexels)

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