Quanto siamo in grado di valutare l’affidabilità dei dati prima di farci un’opinione su un fenomeno? Lo psicologo Paolo Legrenzi affronta questo argomento muovendosi con abilità tra exit poll e citazioni letterarie. Riportiamo uno stralcio del suo articolo per la Domenica del Sole 24 Ore.

Verso le cinque di sera di domenica 15 ottobre 2017 è arrivato il primo exit poll delle elezioni austriache, penultime nella serie europea che si chiuderà con il voto italiano. Negli exit poll si domanda a un elettore come ha votato, nei sondaggi come pensa di votare. Nel primo caso, per solito, la previsione è più affidabile perché una persona può solo mentire, mentre nel secondo caso alla menzogna o alla reticenza si può aggiungere un genuino cambio di opinione. In entrambi i casi, comunque, ci si limita a interrogare un piccolo campione di votanti rispetto a tutta la popolazione che ha appena votato o che lo farà. Questa procedura implica un certo margine di errore. Per esempio, nel caso delle elezioni austriache, l’exit poll appena fatto dopo la chiusura delle urne non sa dirci con certezza se i socialdemocratici siano il secondo o il terzo partito. Non si può interrogare il quasi milione di persone il cui voto per posta sarà noto solo il 16 ottobre. Gli esperti inoltre ipotizzano che chi vota prima e da lontano tenda a scegliere in modo diverso da chi si reca alle urne. Se così fosse, l’exit poll non sarebbe accurato, come la bilancia starata del mio bagno che, se ci si pesa più volte di seguito, ci illude dandoci una misura precisa, nel senso che i chili indicati sono sempre gli stessi. E tuttavia non è accurata perché alleggerisce ogni volta di un chilo rispetto a una bilancia che funziona bene. Se invece l’exit poll viene fatto su un campione troppo piccolo, allora la misura non è precisa nel senso che se, in seguito alla stessa elezione, facciamo più exit poll avremo risultati ogni volta diversi gli uni dagli altri perché il campione non è sufficiente per darci un quadro fedele di come stanno le cose. Nei sondaggi austriaci, l’insieme di queste variabili determina secondo gli esperti un margine di errore superiore al 2 per cento. Il senso comune tende a confondere accuratezza e precisione, anche se tutti capiscono che può capitare di essere precisi e accurati per puro caso.

In un passaggio del Cavaliere inesistente (1959) di Italo Calvino troviamo Bradamante, personaggio immaginario femminile dell’Orlando furioso, che prende in giro Rambaldo durante una sfida tra arcieri: «Colpisci il segno ma sempre per caso. – Per caso? Se non sbaglio una freccia! – Anche t’andassero bene cento frecce, sarebbe sempre per caso! – Cosa mai allora non è per caso? Chi riesce a riuscire non per caso? Lentamente Agilulfo, il cavaliere inesistente, s’avvicina, prende l’arco, si scrolla indietro il mantello … I suoi movimenti – racconta Calvino – non erano quelli dei muscoli e dei nervi che cercano d’approssimarsi a una mira: egli metteva a loro posto delle forze in ordine voluto, fermava la punta della freccia nella linea invisibile del bersaglio, muoveva l’arco quel tanto e non di più … La freccia non poteva che andare a segno. Bradamante gridò: – Questo sì è un tiro!»

In questa fantastica invenzione un solo caso, eseguito a regola d’arte, mostra una perfezione che è garanzia istantanea di precisione e accuratezza. Fare un sondaggio è in fondo come tirare una freccia contro un bersaglio: beccare il centro vuol dire fare una misurazione quanto più precisa e accurata.

I risultati dei sondaggi sono presentati e discussi durante le numerose trasmissioni televisive nel tentativo di prevedere l’esito delle future elezioni. Potete così assistere a un fenomeno che ricorda la magia del cavaliere inesistente. Viene presentata una tabella e si confrontano le percentuali dei partiti nel penultimo e nell’ultimo sondaggio. La tabella reca in basso, scritto in piccolo, il margine di errore che spesso è superiore al 2 per cento perché sarebbe troppo costoso interrogare direttamente, e non per telefono, campioni molto grandi di elettori. Eppure di questo non si parla mai, la grandezza del campione è irrilevante, la metodologia non conta, il margine di errore svanisce. Nessuno si domanda se un altro sondaggio identico darebbe lo stesso risultato. Al contrario, ci si accapiglia su differenze percentuali piccole, persino dello 0,1 per cento, e ci si domanda come mai quel partito mostri una tendenza alla crescita o al calo. La tendenza, in realtà, potrebbe non esserci e, se ci fosse, non sarebbe certo avvalorata dai dati di quel sondaggio. Non si pensi però che questa sia una frode architettata sapientemente per intrattenere in qualche modo gli ascoltatori e animare lo spettacolo. Esiste un’irrefrenabile tendenza della mente umana a non prendere in considerazione la grandezza di un campione, a credere di sapere come stanno le cose anche quando questa è pura illusione.

Nell’edizione di Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez appena pubblicata in occasione del cinquantenario troviamo il disegno colorato dell’albero genealogico della famiglia Buendía sullo sfondo di una lussureggiante foresta tropicale. È un continuo alternarsi di Aureliani e José Arcadi. Nel romanzo si racconta come la capostipite Ursula ritenga che gli Aureliani siano riflessivi e dalla mente lucida e gli Arcadi impulsivi e troppo inclini all’azione. Questa conclusione discende dall’esame del carattere di tre Aureliani e di tre Arcadi e a Ursula «sembra indiscutibile» (p. 160). In realtà, l’esame di quei sei casi non è sufficiente per una probabilità statistica «indiscutibile». Però quando, nella stessa famiglia, avete avuto tre casi di un tipo e tre di un altro, viene spontaneo pensare che il nome di un Buendía sia un segno della sua personalità.

Tutti noi siamo di primo acchito un po’ Arcadi e, solo in seguito diventiamo Aureliani nel senso che, sui due piedi, diamo “a naso” giudizi non sufficientemente garantiti dai dati.

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(Foto di Evan Dennis su Unsplash)