La felicità è «l’ambizione a una vita tranquilla», come scrisse Einstein, o dipende dalla lunghezza del gene 5-HTTLPR, che controlla la trasmissione di serotonina al cervello? Prova a chiederselo l’antropologo Marc Augé nel suo ultimo libro Momenti di felicità (Raffaello Cortina Editore). Riportiamo uno stralcio della recensione scritta da Riccardo Piaggio per la Domenica del Sole 24 Ore.

La felicità ci appartiene. «Non cercheremmo di essere felici», ci ricordava Sant’Agostino, «se non conoscessimo già la felicità». O almeno la sua idea. In un’epoca senza disciplina e in cui le discipline sono (per fortuna) permeabili le une alle altre, il mestiere dell’antropologo appare come il più indicato a raccontare quella bomba emotiva, esistenziale e sociale che conosciamo, pur senza averne fatto mai l’esperienza diretta, con il nome di felicità. Che è una cosa seria, se è vero che la depressione è al momento (ma le cose stanno peggiorando) la seconda malattia al mondo, dopo un’altra questione di cuore, le patologie cardio-vascolari.

Sembra che, nel mondo, siano oltre sessanta milioni i bipolari e oltre quattrocento milioni i depressi. Lo dice l’OMS e i dati (lo scorso anno) sono già superati. Che fare, dunque? La parola felicità ha innumerevoli definizioni possibili, forse uguagliata solo da altre blasonate parole contenitore – ad esempio la parola cultura – che servono sovente a perorare cause e pulsioni addirittura contrapposte. E a coprire i vuoti dell’esistenza. Pensate alla parola identità, il mantra concettuale dei movimenti separatisti e di quelli nazionalisti. È stata la parola cardine degli ultimi tre papi e di Che Guevara.

A squarciare il velo dell’ambizione ad «una vita tranquilla e modesta», che «porta più gioia del perseguimento del successo legato a un’agitazione perenne» (ecco la definizione che Einstein appuntò, come sua abitudine, su un foglietto in un hotel di Tokyo, valsa recentemente 1,56 milioni di euro ad un’asta a Gerusalemme) prova ora Marc Augé. Con ogni probabilità, il migliore antropologo vivente old school, ma non per questo meno fresco e vitale, tecnicamente parlando, di molti emaciati colleghi da dipartimento. Augé, l’inventore dei non luoghi, intesi come luoghi in assenza di relazioni, ha preparato una ricetta della felicità (non ispirandosi alla cucina francese), che proveremo a scoprire. Momenti di felicità non è un essai, ma un memoir scritto in primissima persona, in cui l’autore si racconta, si svela e scrive a noi una lunga lettera, non definitiva, di dolce addio.

Un libro per essere felici, aspettando la felicità. Che nasconde una ferita: la felicità non è mai a prescindere, ma sempre nonostante. Cioè, si è felici sempre nel mondo con le sue incertezze e tragedie e contemporaneamente si è felici nonostante queste. Il segreto? La felicità non è sostenibile a lungo ed è qualcosa che si misura necessariamente con la dimensione del tempo. «Esistere significa approfondire l’istante», scriveva il grande filosofo Karl Jaspers.

La felicità è una questione di memoria e dopo di attesa; anche se dura un attimo, Augé suggerisce che non è l’attimo a fuggire da noi, ma noi da lui: «I momenti di felicità fugace sono rivelatori: non appena scompaiono, ne avvertiamo impellente la necessità. Inchiodati a un letto d’ospedale, misuriamo il valore di una pur breve passeggiata in città. Quei momenti ci rivelano inoltre qualcosa che riguarda il legame sociale e la solitudine, il passato e il futuro. E così pure qualcosa dell’odierna disparità dei destini: forse anche gli emigranti senza speranza conosceranno alcuni momenti di felicità, eppure rimangono condannati a vivere soltanto il tempo futuro».

Così ci informa la più recente ricerca nell’ambito delle neuroscienze: la felicità dipenderebbe dalla lunghezza di un gene (5-HTTLPR) deputato a trasmettere dosi di serotonina al cervello e addirittura è misurabile con un test neuro-elettrico (il BEAM). Tutto qui? Cambiando angolatura, le scienze sociali ci hanno abituati a confrontarci con questa perifrasi, un poco ipocrita: «Stati di benessere soggettivo», che anche se arriveranno a dirci come facciamo esperienza della felicità, non ci diranno il perché. Né cosa sia la felicità. Ci ha provato a lungo la filosofia, da Epicuro («Ogni piacere è un bene, ciò nonostante non vada scelto ogni piacere; così come se ogni sofferenza è un male, ciò nonostante la sofferenza non va rigettata a priori») a Montaigne («In vita mia ho visto centinaia di umili lavoratori vivere più saggi e felici di molti rettori di Università»). Mentre Spinoza, forse il filosofo che ha costruito più concetti sulla parola felicità, poneva al centro della questione il desiderio, «essenza dell’uomo» e la ricerca della bellezza, il sentimento più raro e prezioso al mondo.

Lo ha spiegato bene il filosofo francese Frédéric Lenoir nel suo saggio sulla Felicità (Bompiani, 2014); alla fine, è una semplice questione di conflitti interni: «La felicità assume l’aspetto di tutto ciò che non possediamo». Augé, invece, ci riporta nel mondo delle relazioni, affermando che la felicità è lo sguardo incrociato, non può esistere senza l’altro. Si è felici solo in relazione con qualcuno. E non si può esserlo neppure senza quel piccolo, residuale ascolto di sé, che ci fa vivere la pienezza del benessere nei piccoli e rari momenti quotidiani, accessibili a prescindere da classe e successo sociale. Il cervello fa il resto, abituandoci ad attendere e a ricordare. È – né più ne meno – la solita, burrosa madeleine di Proust. Solo che, oltre le briciole, ci sono sempre, almeno, due persone (Proust le mangiava da solo, e non era felice).

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(Foto di Alexandre Godreau su Unsplash)