Trentasette. A leggerlo ci vuole un attimo ma, una volta appreso quale conto si nasconde dietro a questo numero, la voce tradisce qualche titubanza. Si tratta del numero di donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno per aver detto “no” al proprio partner. Continuando a questo ritmo si potrebbero superare le 150 uccisioni in un anno. Colpisce il dato, che preso nella sua disarmante inconfutabilità proietta in un mondo che forse pensavamo sepolto, passato. E smaschera definitivamente il vero sesso debole della coppia, l’uomo. L’uomo che non sa accettare il rifiuto e risponde con la violenza, con l’annientamento dell’altro e quindi con la rimozione del problema.

Apprendiamo la notizia dal blog di Lidia Ravera sul Fatto quotidiano, e proprio da quella pagina emerge un’altra questione che lascia perplessi, ossia leggere i commenti all’articolo, molti dei quali (tutti inoltrati da lettori uomini) puntano a minimizzare, sostenendo che Ravera «vede uomini-mostro ovunque», e che quindi dovrebbe «farsi qualche seduta da uno bravo». Anche qui, il meccanismo di rimozione è evidente. Ci piacerebbe che la scrittrice si sbagliasse, che esagerasse, che facesse emergere lo spaccato di un’Italia immaginaria, frutto di una macabra messa in scena giornalistica.

E invece non è così, e lo prova anche lo studio della “Casa delle donne” di Bologna, che ha stilato il rapporto “Uomini che uccidono le donne. Indagine sul femicidio in Italia. I dati del 2011”. “Femicidio” è un termine introdotto dai centri di assistenza alle donne vittime di violenza, e sempre più si sta diffondendo per descrivere in maniera precisa il fenomeno. «La mancanza di qualsiasi iniziativa -si legge nell’introduzione-, tanto di ricerca che di prevenzione sul femicidio, riscontrabile nel panorama italiano, ha evidentemente a che fare con la scarsa consapevolezza e il disinteresse nei confronti del più vasto tema della violenza di genere, di cui il femicidio rappresenta l’espressione estrema e spesso la sola visibile. Un senso comune diffuso, che porta frequentemente a rifiutare il tema della violenza o a rappresentarla come qualcosa d’altro da sé, che non appartiene alla nostra cultura, ma che semmai ha a che fare con l’arretratezza di altre comunità, o ancora a negarla, minimizzarla».

120 sono i femicidi registrati nel 2011. Un numero probabilmente sottostimato, dato che si basa esclusivamente sulla raccolta di notizie prese dalla stampa nazionale e locale. La stessa stampa che spesso individua in “raptus”, accessi di gelosia, conflittualità di coppia le cause dei delitti, strappandoli di fatto dal contesto sociale che vi sta attorno e cacciandoli nell’alveo della perdita di lucidità momentanea, dell’attimo di follia, o della mascalzonata di un poco di buono. E invece la società deve farsi carico di questi atti, che ne sono espressione tanto quanto i delitti di mafia, la violenza minorile, il bullismo. «La riconduzione del femicido a una sfera intima e privata è tanto pericolosa per la sua esatta comprensione e contrasto, quanto facile perché deresponsabilizza chi non è dentro la relazione, istituzioni incluse, pertanto non è accettabile». Ecco perché, prima di scrivere certi commenti, bisognerebbe pensare che anche tra le parole si nascondono uomini-mostro.