Nel raccontare i casi di femminicidio, i giornalisti hanno una grandissima responsabilità verso il lettore. Scrivere di un caso di violenza sulle donne non consiste solo nell’offrire il resoconto dei fatti, ma implica l’utilizzo di un sistema simbolico condiviso, attraverso il quale si dà (in maniera più o meno esplicita, più o meno consapevole) anche un’interpretazione dei fatti stessi. All’interno del mondo giornalistico, negli ultimi anni, si sta prendendo coscienza del problema, e si stanno svolgendo iniziative interessanti per riflettere sull’argomento. Spesso la professione giornalistica porta a semplificare eccessivamente, a fare collegamenti tra fenomeni che non hanno alcuna relazione, ad appoggiarsi a schemi e termini ricorrenti per incasellare un fatto in una narrazione più ampia, che (arbitrariamente) si presume condivisa. Ulteriori vincoli sugli spazi da riempire e sui criteri di completezza della notizia portano poi ad aggiungere dettagli, dichiarazioni e considerazioni non necessari alla comprensione dell’accaduto.

Di questo si è parlato durante il “Seminario-Laboratorio sulle differenze di genere. Raccontare la violenza guidati dall’etica e dalla deontologia”, che si è svolto a Bologna il 7 ottobre. Nel corso dell’incontro, tra le relatrici, è intervenuta la ricercatrice della Scuola di scienze politiche Chiara Gius, che ha presentato i risultati di una ricerca condotta (insieme a Pina Lalli) esaminando la copertura giornalistica dei casi di femminicidio nel 2012 in tre fra i maggiori quotidiani italiani (Corriere della Sera, La Repubblica La Stampa), nelle edizioni nazionali cartacee e online. «Il numero totale dei casi di femminicidio avvenuti in Italia nel 2012 rilevato da Ioratti et al. (2013) identifica un totale di 124 vittime – si legge in un articolo pubblicato dalle ricercatrici sulla rivista Comunicazionepuntodoc –. Prendendo in considerazione unicamente i casi perpetrati dal partner o dall’ex partner delle vittime, abbiamo individuato fra questi la presenza di 72 femminicidi “domestici”. La nostra disamina della cronaca nazionale sopra indicata ha mostrato che 53 di questi casi hanno trovato copertura mediatica in almeno uno dei tre quotidiani presi in considerazione, per un totale di 166 articoli di cronaca nazionale». Si tratta dunque di una ricerca che ha qualche anno, ma è comunque un buon punto di partenza per capire alcune dinamiche che non sono certo sparite dal panorama informativo italiano. La domanda da cui sono partite le ricercatrici è la seguente: «Il femminicidio viene rappresentato come atto di responsabilità individuale o come espressione di una volontà di potere e dominio da parte del perpetratore sulla vittima?».

Dall’analisi effettuata, emerge che i frame più ricorrenti nel racconto del femminicidio sono due: l’amore romantico e la perdita di controllo. Il primo è forse un retaggio del “delitto d’onore”, ossia un’attenuante che il codice penale prevedeva per i reati commessi da uomini che agissero per salvaguardare una qualche forma di reputazione, messa in discussione dallo scoprire che la moglie, la figlia o la sorella fossero coinvolte in una «illegittima relazione carnale». Sembrano cose d’altri tempi, ma questa norma è stata abolita solo nel 1981, dopo i referendum sul divorzio e sull’aborto. «Il ricorso all’idea di amore romantico – ha spiegato Chiara Gius – tende a suggerire che il femminicidio può maturare anche in contesti dove regnano l’affetto e l’amore, così sostenendo una rappresentazione fondamentalmente positiva del perpetratore, che potrebbe suggerire una sua limitata responsabilità rispetto a quanto accaduto».

Un’altra dinamica che porta ad alleggerire in qualche modo la colpevolezza dell’assassino è la frequenza con cui (almeno nel 2012) appariva la parola raptus, portata come motivazione del delitto. «Si evoca un termine di uso corrente per spiegare l’inspiegabile, seppur privo di evidenza medico-scientifica: l’attimo incontrollato di raptus, in cui il perpetratore agisce sotto l’impeto di una furia cieca e incontenibile». Un dettaglio non trascurabile è che in psicologia questo termine non viene quasi mai utilizzato. Come spiega Claudio Mencacci, direttore del Dipartimento di Neuroscienze del Fatebenefratelli di Milano: «Non si considera mai che, guarda caso, quella violenza ha come oggetto i più fragili, i deboli, le persone indifese e quindi le più esposte. Lei ha mai sentito dire di qualcuno colto da raptus che ha assalito un uomo grande e grosso? […] Noi, in psichiatria, tendiamo a escludere l’esistenza del raptus».

Tra le iniziative che testimoniano una presa di coscienza del problema da parte del giornalismo, segnaliamo che a fine settembre è stato varato il “Manifesto delle giornaliste e dei giornalisti per il rispetto e la parità di genere nell’Informazione”. Il documento, che sarà presentato a Venezia il 25 novembre, propone tra le altre cose una serie di accorgimenti che ogni singolo giornalista dovrà fare propria nel trattare casi di femminicidio. Al punto 10 compare l’impegno a evitare «b) termini fuorvianti come “amore” “raptus” “follia” “gelosia” “passione” accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento; c) l’uso di immagini e segni stereotipati o che riducano la donna a mero richiamo sessuale” o “oggetto del desiderio”; d) di suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con “perdita del lavoro”, “difficoltà economiche”, “depressione”, “tradimento” e così via. d) di raccontare il femminicidio sempre dal punto di vista del colpevole, partendo invece da chi subisce la violenza». In poche righe, sono riassunti i punti deboli del giornalismo italiano evidenziati dalla ricerca di Lalli e Gius (per approfondire si può trovare qui un articolo in inglese), dunque ci auguriamo che il Manifesto trovi piena diffusione e applicazione.