Piccola premessa. Siamo consapevoli del fatto che criticare le decisioni del governo per il contenimento della pandemia è questione delicata. E infatti non è un caso la scelta del titolo in forma di domanda: non vogliamo suggerire risposte, ma solo proporre riflessioni. Anzi, prima di andare oltre, teniamo a sottolineare l’importanza di seguire scrupolosamente le indicazioni delle autorità sanitarie e rispettare le limitazioni imposte dalle istituzioni. Fine della premessa.

«Su 347.262 spettatori in 2.782 spettacoli monitorati tra lirica, prosa, danza e concerti, con una media di 130 presenze per ciascun evento, nel periodo che va dal 15 giugno (giorno della riapertura dopo il lockdown) ad inizio ottobre, si registra un solo caso di contagio da Covid 19 sulla base delle segnalazioni pervenute dalle ASL territoriali. Una percentuale, questa, pari allo zero e assolutamente irrilevante, che testimonia quanto i luoghi che continuano ad ospitare lo spettacolo siano assolutamente sicuri». L’ha scritto, prima che entrasse in vigore l’ultimo DPCM che impone, tra le altre cose, la chiusura di cinema e teatri, l’Agis, l’associazione che raccoglie i professionisti dello spettacolo in tutte le sue forme. Purtroppo l’ente non ha pubblicato l’intera ricerca o i dettagli sul modo in cui è stata condotta. Si specifica solo che lo studio è stato realizzato “grazie all’app Immuni”. Se fosse solo Immuni la fonte dei dati, dovremmo dubitare della rappresentatività del risultato. Se in questi giorni si sono superati i 9 milioni di download, a inizio ottobre eravamo ancora sotto i 6 milioni e 700 mila, e ancora meno nei mesi precedenti, a cui fa riferimento l’indagine. Inoltre, i mesi estivi non sono notoriamente quelli in cui teatri e cinema sono più frequentati (a maggior ragione in una situazione straordinaria come quella attuale). Detto questo, è comunque probabilmente vero che restano ambienti molto più sicuri di altri, che invece restano aperti anche se in forma limitata. Al cinema e a teatro si sta infatti generalmente in silenzio (oltre che distanziati e con la mascherina), ed è quindi molto più difficile per il coronavirus diffondersi rispetto ad ambienti in cui si parla (ed è permesso togliere la mascherina). Il virus infatti si propaga principalmente attraverso le gocce di saliva e, se non si parla, tossisce o starnutisce, queste sono molto meno libere di viaggiare. Come fa notare Nicola Lagioia su Repubblica: «Cento persone in una sala che ne contiene cinquecento o mille, tutte con la mascherina, a bocca chiusa, distanziate anche di due o tre metri, immobili a vedere un film o un attore in carne e ossa. Il grado di sicurezza che abbiamo potuto riscontrare in teatri, cinema, sale da concerto mi sembra incomparabile rispetto a quello di tanti altri luoghi, molti dei quali continueranno a funzionare. Personalmente, se decido di uscire di casa, so che le probabilità di prendermi il coronavirus guardando Edipo Re sono meno che andandomi a fare una pizza con gli amici».

La cultura non è solo intrattenimento

L’articolo di Lagioia è interessante anche per altri aspetti. Per esempio quando si sofferma sul ruolo della cultura nella società, al di là della funzione di mero intrattenimento che sembra assegnarle la politica. Un ruolo sociale e simbolico che non si può sottovalutare: «Non sto dicendo che l’arte debba svolgere un ruolo puramente consolatorio, o che peggio debba essere il sonnifero per le nostre turbolenze. L’arte, però, rifonda continuamente la comunità, problematizza il nostro vivere insieme e dunque lo ricompatta, mette in discussione il rapporto tra capo e popolo, rappresentante e rappresentato, tra chi ha potere e chi ne ha meno e, in questo modo, mettendola retoricamente in crisi, evita che la città sprofondi su se stessa. […] Condividere e ritualizzare i problemi, e ancor più le tragedie, è importante. Senza rito né condivisione non c’è elaborazione, senza elaborazione si precipita in un buco nero. […] Ora, nel mondo laico, sul piano simbolico e rituale, questa funzione da sempre la svolgono i teatri. Senza polis non si dà il teatro. Ma senza teatro – fosse anche un attore, davanti a tre spettatori, distanziati dieci metri – la polis comincia a disgregarsi. Se questo governo crede che la cultura sia solo spettacolo e intrattenimento (“i nostri artisti che ci fanno divertire”, fu lo scivolone di Conte dello scorso maggio), o che perfino l’intrattenimento non sia legato a qualcosa di più antico e fondante, allora si capisce bene la decisione di chiudere tutto senza distinzione. Si intravede però così anche una mancanza di visione, quella che servirà – passata la tempesta – per costruire un futuro diverso».

(Foto di Felix Mooneeram su Unsplash)