Quindici anni, per un festival, sono l’età della maturità. Dopo tre lustri, un progetto musicale, culturale, artistico e commerciale ha acquisito una storia e un’esperienza tali da poter pensare al proprio futuro come spazio di crescita e consolidamento. Altrove forse, non in Italia. Oggi parliamo di due festival, simili per natura ed età anagrafica, molto diversi per filosofia e ordine di grandezza, e accomunati dalla “crisi del quindicesimo anno”. Partiamo dal prezioso festival che si svolge a Palau, Sardegna, e si chiama “Isole che parlano”. L’idea è dei fratelli Paolo e Nanni angeli (rispettivamente musicista e fotografo), che nel 1996 pensano a un progetto in grado di «coniugare le avanguardie metropolitane con la musica tradizionale sarda», ponendo grande attenzione al contesto, con l’intento di far conoscere il patrimonio naturale dell’isola. Da questa cellula embrionale nasce un festival che, nel corso degli anni, ospiterà i nomi più importanti della musica di ricerca del nostro tempo: Evan Parker, Iva Bittova, Eugene Chadbourne, Hamid Drake, Fred Frith, Paul Lovens, Han Bennink, tanto per fare alcuni nomi. Il tutto senza dimenticare la tradizione sarda, e infatti nel programma di ogni anno non mancano conferenze, mostre e gare di “canto a chitarra”, pratica nata secoli fa e diffusa in alcune zone della Sardegna. Dopo alcune edizioni nasce un programma parallelo dedicato ai più piccoli, “Isole che parlano… ai bambini”, con laboratori e spettacoli volti a stimolare la creatività in un ambiente piacevole. Il fatto che il simbolo dell’edizione 2011 del festival sia un paio di cesoie la dice lunga sul tema portante di quest’anno. «Passare da un contributo che rappresenta il 50 per cento del budget complessivo a… zero, non è un taglio: è un omicidio culturale», si legge sul sito internet. Da qui l’idea di una campagna di autofinanziamento: «In qualsiasi paese europeo, un festival che ha alle spalle 15 anni di storia come la nostra, avrebbe la possibilità di programmare con serenità il suo presente e pianificare il futuro. Ci troviamo invece senza contributo regionale (per la prima volta dopo cinque anni di contribuzione), senza finanziamento da parte della Fondazione banco di Sardegna (per la prima volta dopo quattro anni di contribuzione), senza contributo della Provincia di Olbia-Tempio e di altri sponsor che negli anni ci avevano finanziato. A circa 15 giorni dall’inizio della manifestazione, abbiamo la sola certezza del contributo del Comune di Palau. Per poter chiudere il programma, lo staff tecnico, quello organizzativo, quello amministrativo, l’ufficio stampa, la web master, hanno offerto la loro partecipazione a titolo gratuito e gli artisti parteciperanno con cachet fortemente ridotti». Un quadro decisamente desolante, che ci spinge a supportare questa campagna di “adozione a distanza”, le cui istruzioni potete trovare sul sito web del festival.

Per tutt’altro motivo, invece, l’Italia ha ormai perso un altro evento di grande importanza culturale, ma anche economica, il Rototom SunSplashIl più grande festival europeo di musica reggae (200mila spettatori l’anno), che da quindici anni si svolgeva a Osoppo -minuscolo paesino ai piedi delle Alpi a Nord di Udine- dal 2009 ha levato le tende e dal Friuli si è spostato in Spagna, a Benicassim. Qui le motivazioni sono relative al consumo di droghe durante la kermesse, dato che dopo tanto tempo «qualcuno ha pensato che sì, a un festival reggae qualcuno si fa una canna», e ora il fondatore, Filippo Giunta, è sotto inchiesta per agevolazione dell’uso di sostanze stupefacenti. «Il Rototom, nel frattempo, è stato riconosciuto dall’Unesco come evento emblematico del decennio internazionale per una cultura di pace. Uno degli avvocati di Giunta ha azzardato un paragone ardito quanto appropriato: “Chi mai si sognerebbe di mettere sotto inchiesta gli organizzatori dell’Oktober Fest per ubriachezza molesta?”». Oltre al danno culturale, c’è quello economico, visto che il festival dà lavoro a quasi 700 persone ogni anno e muove qualcosa come sette milioni di euro. Era una boccata d’ossigeno per il paesino friulano, costretto a vivere questo trasloco in un momento di crisi economica generale. Storpiando il celebre adagio: Rototom, quindici anni e non sentirli più.