«Sopra un punto almeno credo che tutti gli italiani ragionevoli siano d’accordo: la giustizia nel nostro paese versa in condizioni deplorevoli». Così inizia l’intervento del magistrato Giuseppe Maranini, allora preside della Facoltà di scienze politiche dell’Università di Firenze, al teatro Quirino di Roma nel 1963. È una constatazione che potrebbe funzionare bene come incipit anche oggi, a decenni da quella sera. Maranini si rivolgeva a una platea di colleghi (magistrati e avvocati), e quindi alcune considerazioni del suo discorso affrontano temi tecnici e politici. Ma questo contiene numerosi passaggi che aiutano a capire meglio l’Italia di oggi, così diversa ma allo stesso tempo così vicina a quella di allora, almeno dal punto di vista della giustizia. «Nessuno, solo che possa farne a meno, si rivolge al giudice per difendere il suo diritto – prosegue Maranini –: e troviamo, al contrario, una avversione istintiva e vivissima nel cittadino comune, comunque chiamato ad avvicinarsi agli uffici giudiziari. Eppure la giustizia è servita nel nostro paese da magistrati di alta integrità e molto spesso anche di alta preparazione specifica. Perché dunque questa impopolarità della giustizia? Perché, diciamolo pure, questa sfiducia nella giustizia? Perché questa tendenza, così diffusa a farsi giustizia da sé, con mezzi legali e illegali, morali e immorali, con i compromessi, con gli arbitrati, con private pressioni, con interposizione di persone autorevoli e potenti, e nei casi peggiori con la frode, la minaccia e la violenza?». Le risposte a queste domande sono ovviamente molte e di varia complessità.
Lentezza dei processi
Maranini decide di cominciare da un punto che, tanto quanto l’incipit, suonerà familiare al lettore di oggi: «In primo luogo, la nostra giustizia è terribilmente lenta, sia nel campo civile che nel campo penale. Credo che rimuovere questa lentezza debba costituire una delle maggiori preoccupazioni di tutti noi. Un processo lento è un processo il più delle volte disastroso per tutti, vincitori e soccombenti. Chi in buona fede crede nel proprio diritto, nella maggior parte dei casi non esiterebbe ad affrontare un giudizio, se sapesse di poter conoscere definitivamente la sua sorte, buona o cattiva, nel giro di poche settimane, chiudere così la partita e volgersi poi di nuovo, in serenità e sicurezza, alle attività normali della vita produttiva e costruttiva. […] L’avversione per un giudizio è così profonda in molti italiani, che spesso rifiutano di esservi coinvolti perfino in veste di querelanti e denuncianti, e preferiscono subire in silenzio un sopruso penale, oppure reagire con mezzi e modi che non sono certo mezzi e modi di giustizia». L’espressione “ho fiducia nella giustizia”, ormai, è monopolio dei politici che finiscono sotto indagine. Mentre ampie quote di cittadini somigliano sempre di più alla descrizione di Maranini (sfiduciati, rabbiosi, impulsivi), la politica lancia messaggi contraddittori e ben poco concilianti. Quando la magistratura prende iniziative non gradite, si grida alla politicizzazione delle toghe. Quando qualcosa va storto, ci si appella a questa astratta “fiducia nella giustizia”. Talvolta non si esita a sfidare i magistrati, sulla base di un “mandato dei cittadini” che dovrebbe valere più di qualsiasi controllo esterno. Un modo di comunicare che genera confusione (o la aggrava) rispetto al concetto di separazione dei poteri. Ma l’attualità delle parole di Maranini può essere un’utile chiave di lettura dell’oggi. Il clima di sfiducia, la tendenza a trovare soluzioni “alternative” (più o meno lecite: di certo più rapide) alle situazioni di conflitto viene da lontano, e si propaga anche oltre l’ambito strettamente legato alla politica e alla magistratura. È diventato una mentalità, un modo di agire nel quotidiano per sé e per gli altri.
Confusione delle leggi
Maranini arriva ad affrontare un altro nodo critico, legato al precedente: «C’è un enorme lavoro giudiziario arretrato; […] in molte sedi i giudici sono gravati da un lavoro estenuante, incompatibile con quella meditazione e responsabilità che il delicato ufficio esige. Ma la causa di questo arretrato non è la insufficienza degli organici. È la confusione delle leggi, la assurdità delle procedure, il sistema insensato delle impugnazioni, l’abuso della collegialità». Il rischio, o meglio il problema, è che chi esercita la funzione di giustizia possa essere percepito come il rappresentante di un sistema di Azzeccagarbugli che si rende incomprensibile al cittadino. Nel rimbalzo di rimandi e richiami presenti nei documenti giudiziari il cittadino non si sente tutelato, ma schiacciato da un apparato che non sembra essere messo lì per dirimere le questioni, ma per fare sì che queste si protraggano all’infinito, possibilmente senza prendersi alcuna responsabilità. Da decenni gli italiani covano questa sfiducia, inutile aspettarsi che svanisca da sé.
(Foto di Wesley Tingey su Unsplash)