di Federico Caruso

Durante il governo Prodi I (1996-98), chi scrive frequentava l’istituto tecnico commerciale (meglio noto come “ragioneria”) Carlo Dell’Acqua di Legnano. Ricordo che allora il nostro professore di geografia economica, l’esimio Gianfranco Marelli, non esitava a definire il Fondo monetario internazionale (Fmi) «un’associazione a delinquere». In particolare se la prendeva col suo programma di prestiti concessi a patto che i Paesi destinatari dei fondi applicassero le politiche economiche “suggerite” dal Fondo stesso. Pochi anni dopo sarebbe scoppiata la crisi in Argentina, che ha precipitato il Paese nel disastro, e lì il Fmi ebbe proprio questo ruolo di aiuto in cambio di regia. Ai primi segni di ripresa, l’Argentina si impegnò a ripagare tutti i debiti contratti verso il Fondo, in modo da svincolarsi dalla sua dipendenza. Così è descritta la vicenda su Wikipedia: «Nel 2005, quando un consistente e crescente avanzo fiscale lo rese possibile, l’Argentina adottò una politica di disindebitamento verso il Fmi: iniziò a pagare il Fondo regolarmente, evitando il più possibile rinegoziazioni, così da guadagnare indipendenza da esso. Il 15 dicembre 2005, seguendo un’iniziativa simile a quella attuata dal Brasile, il presidente Kirchner annunciò improvvisamente che l’Argentina avrebbe pagato l’intero debito al Fmi. I pagamenti del debito, per un totale di 9.810 miliardi di dollari, erano stati precedentemente fissati in un programma rateale che sarebbe durato fino al 2008».

Oggi l’Europa ha a che fare col Fondo monetario, che sta invitando i Paesi più in difficoltà, come Grecia e Spagna, ad adottare politiche di austerity, ossia tagli alla spesa pubblica e azzeramento del welfare. Un’indicazione, quest’ultima, molto gettonata anche dai governi italiani degli ultimi anni. Con i tagli cala quindi il debito pubblico, e ovviamente anche il pil (prodotto interno lordo). Ma più il primo del secondo, secondo il Fmi, quindi avanti con la scure e si tagli finché si può, perché tanto il rapporto tra i due sarà sempre a vantaggio della crescita. E invece no. Chi lo dice? Sorpresa: il Fmi. Ci siamo sbagliati. Proprio così ha detto il direttore Olivier Blanchard, come scritto sul Washington Post del 3 gennaio. «An amazing mea culpa», formula che colpisce quanto la gravità della notizia.

«L’ultimo studio del Fmi segnala che tagliando la spesa pubblica il pil diminuisce più rapidamente di quanto non diminuisca il debito -scrive Andrea Baranes-. Il rapporto continua a peggiorare. I piani di austerità non solo sono devastanti dal punto di vista sociale, ma sono nocivi anche da quello macroeconomico». In Italia da un anno accettiamo tali piani in quanto “male necessario”, ma siamo sicuri che lo siano davvero se ora anche il loro più acceso (e influente) sostenitore dice il contrario? «Si soleva mascherare il conservatorismo liberista con l’inesistenza di politiche cosiddette di sinistra o di crescita -ha scritto sul Sole 24 Ore di domenica 13 gennaio Guido Rossi-, poiché l’unico problema rilevante era considerato quello dell’austerity e del rigore di bilancio, che non era di nessuna connotazione politica, bensì una decisamente sbagliata ideologia economica». In Europa in questi giorni il presidente dell’Eurogruppo Jean Claude Juncker ha ripreso il concetto fino a poco tempo fa desueto di “salario minimo garantito”, di marxiana memoria. È il momento di pretendere una stagione nuova, fatta di investimenti e non di tagli. Non sono le ideologie ma i dati a dirlo, quindi l’invito è a diffidare di chi, alla prossima occasione, prospetterà ulteriori “mali necessari”. Di necessario qui c’è una visione politica nuova e più vicina ai cittadini.