Quanto spesso pensate all’Impero romano? Come qualcuno ricorderà, era questo uno dei tormentoni che hanno attraversato i social media qualche mese fa. Di certo, quando si pensa al vino bevuto dagli antichi romani, è comune pensare che fosse piuttosto cattivo.
Si ritiene infatti che i viticoltori romani dovessero aggiungere spezie, erbe e altri ingredienti al mosto per mascherarne i difetti.
Tuttavia, un recente studio sui recipienti di terracotta utilizzati per la fermentazione del vino ha messo in discussione questa diffusa convinzione.
Secondo uno degli autori dello studio, che ne scrive su The Conversation, molte delle idee sbagliate che da tempo circondano il vino romano derivano dalla mancanza di conoscenza di uno degli aspetti più caratteristici della sua vinificazione: la fermentazione in vasi di argilla, o dolia. Enormi cantine piene di centinaia di questi vasi sono state rinvenute in tutto il mondo romano, ma apparentemente prima di questo studio nessuno aveva analizzato con attenzione il loro ruolo nella produzione.
I ricercatori hanno confrontato i dolia romani con i recipienti tradizionali della Georgia, chiamati qvevri, in uso ancora oggi. Le somiglianze tra le procedure di vinificazione georgiane e romane, supportate dai reperti archeologici e dai testi antichi, indicano che probabilmente i vini prodotti allora avevano sapori e aromi comparabili a quelli georgiani di oggi.
A differenza dei contenitori di metallo o di cemento utilizzati oggi nella vinificazione, le giare d’argilla sono porose, il che significa che il vino è esposto all’aria durante la fermentazione. Questo contatto, tuttavia, è limitato dal rivestimento dell’interno dei vasi con una sostanza impermeabile. I romani usavano la pece ricavata dalla resina di pino, mentre oggi, in Georgia, si applica la cera d’api neutra. Questo contatto controllato con l’aria dà vita a grandi vini, tipicamente con sapori erbacei, di nocciola e di frutta secca.
Anche la forma del recipiente è importante, spiega The Conversation. La sua forma simile a quella di un uovo, fa sì che il mosto durante la fermentazione si muova, dando vita a vini più ricchi ed equilibrati. Allo stesso tempo, la sua base appuntita impedisce alle parti solide dell’uva che si depositano sul fondo di avere un contatto eccessivo con il vino in maturazione, impedendo la comparsa di sapori aspri e sgradevoli.
Interrando i vasi nel terreno, i viticoltori possono controllare la temperatura e fornire un ambiente stabile per la fermentazione e la maturazione del vino durante i molti mesi di permanenza all’interno dei vasi. Le temperature nei moderni qvevri variano comunemente tra i 13 e i 28 gradi. Questo è ideale per la fermentazione malolattica, che trasforma gli acidi malici, dai tratti taglienti, in acidi lattici, più morbidi, che spesso conferiscono ai vini bianchi di oggi macerati in vasi di argilla toni di caramello e nocciola.
Nella produzione di vini contemporanea, normalmente, le macerazioni più lunghe sono riservate ai rossi. Ma quando si vinifica in vasi di argilla, i vini bianchi sono normalmente sottoposti a lunghe macerazioni con le parti solide dell’uva (bucce, semi e così via). In questo modo si ottengono vini di colore giallo scuro e ambrato, oggi comunemente noti come “orange wines”. Questi vini, oggi sempre più popolari, sono simili alle descrizioni di alcuni dei vini più pregiati dell’antichità.
Evidentemente, dunque, i romani conoscevano meglio di quanto pensassimo molte tecniche diverse per controllare la qualità dei loro vini. Variando le dimensioni, la forma e la posizione dei dolia, spiega l’articolo, i viticoltori potevano avere un grande controllo sul prodotto finale, come fanno oggi i loro colleghi georgiani, e sempre più spesso anche quelli francesi e italiani.
(Foto di Cinzia A. Rizzo su flickr)
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