Riprendiamo le nostre riflessioni sullo stato dell’informazione in Italia, dando la parola a chi prova a fare la professione della giornalista nella maniera più radicale, da freelance nelle zone di guerra. Anche le guerre di cui non vuole parlare nessuno, come quella in Siria. Stiamo parlando di Francesca Borri, che scrive per varie testate italiane e straniere, e ogni giorno deve confrontarsi con la rabbia e la frustrazione di non poter scrivere articoli con il fine di far capire le ragioni e le dinamiche di una guerra, perché le redazioni esigono soprattutto proiettili, sangue e morti. Il resto conta poco, o per niente. Il tutto per 70 dollari a pezzo. Una realtà difficile, che fa rimpiangere i tempi in cui giornalisti come Tiziano Terzani, Oriana Fallaci, Enzo Biagi, ci hanno spiegato il mondo visto dai loro occhi, mettendo l’autorità del giornalista davanti a quella delle esigenze di bilancio. Che poi si continua a dare retta agli esperti del marketing, ma ci chiediamo se abbia senso, vista la perenne crisi in cui versano le testate italiane (che senza gli aiuti di Stato non riuscirebbero a sopravvivere). Ecco un estratto dal lungo articolo di Borri, la cui versione integrale trovate qui.
[…] Non so, l’unica cosa che ho capito, onestamente, è che uno ha questa immagine romantica, no?, il freelance pronto a rinunciare alla sicurezza di uno stipendio fisso in cambio della libertà di seguire le storie che più ha voglia di seguire. E invece non sei affatto libero, l’opposto: sei al traino delle notizie in prima pagina. Perché la verità è che l’unica possibilità che ho di lavorare, oggi, è stare in Siria: cioè stare dove non vuole stare nessuno. La verità è che la seconda lingua, ad Aleppo, dopo l’italiano è lo spagnolo: perché ai greci non è rimasto neppure di che pagarsi il biglietto aereo. E più che Aleppo, a essere precisi: il fronte: perché poi ti chiedono solo il sangue, solo il bum bum – cioè, racconti gli islamisti, e tutta la loro rete di attività sociali, racconti la ragione della loro forza, un pezzo molto più difficile del fronte, provi a spiegare, non solo a emozionare, e ti rispondono: ma qui in 6mila battute non è morto nessuno.
In realtà avrei dovuto capirlo da lì, da quella volta che un caporedattore mi chiese un pezzo da Gaza, perché Gaza, al solito, era sotto bombardamento e perché tanto Gaza, mi arrivò questa mail, la conosci a memoria: che importa che stai ad Aleppo. E perché io invece sono finita in Siria perché ho visto su Time le foto di questo tipo, Alessio Romenzi, uno che si è infilato nelle condutture dell’acqua ed è sbucato a Homs quando ancora nessuno sapeva che Homs esisteva: e un giorno ho visto queste foto, mentre ascoltavo i Radiohead, ho visto quegli sguardi, dritti, giuro, ma degli sguardi che ti si inchiodavano addosso, perché Assad li stava sterminando uno a uno, e nessuno neppure sapeva che Homs esisteva, e giuro: era una morsa alla coscienza che alla fine potevi solo dire: devo andare in Siria. Ma subito: devo andare in Siria – e invece la cosa più frustrante, qui, è che scrivi da Roma o scrivi da Aleppo, per loro è uguale. Ti pagano uguale: 70 dollari a pezzo.
Luoghi in cui ogni cosa costa il triplo, perché poi in guerra si specula su tutto, e per dire, dormire, qui, sotto il tiro dei mortai, un materasso per terra e l’acqua gialla che domani ho di nuovo il tifo, costa 50 dollari a notte, l’auto 250 dollari al giorno. Con il risultato che finisci per massimizzare, non minimizzare, il rischio. Perché non solo non puoi permetterti un’assicurazione, quasi mille dollari al mese, ma più in generale, non puoi permetterti un fixer, cioè un locale che ti curi la logistica, l’organizzazione, non puoi permetterti un interprete: ti ritrovi in città sconosciute completamente solo. In mezzo ai proiettili. Sono perfettamente consapevoli che con 70 dollari a pezzo ti obbligano a tagliare su tutto, e sperare di morire, se sei colpito, perché non potresti mai permetterti di essere ferito: però poi il pezzo lo comprano comunque: anche se non comprerebbero mai il pallone della Nike cucito dal bambino pakistano. E come quella volta a Castelvolturno, gli scioperi dei braccianti clandestini: che mi arrivò questa mail: «voglio un pezzo indignato! 50 euro al giorno! prendono solo 50 euro al giorno!, ma che mondo è?» – e tutti noi eravamo lì per 20 euro al pezzo. […]