Continuare a perdere i nostri “cervelli” migliori non è un buon investimento per il futuro del Paese. Il numero di italiani che sceglie di andare all’estero per sviluppare le proprie ambizioni professionali è in continua crescita, e con loro parte quella che potrebbe essere una leva importante per lo sviluppo (osiamo dire il progresso) italiano. Diciamo questo perché nel Novecento a guidare l’emigrazione di massa non erano le ambizioni ma le necessità: chi partiva non aveva nulla da perdere, perché fuggiva dalla miseria, dalla povertà, non aveva più alcuna speranza di sopravvivere nel territorio in cui era cresciuto e quindi ricercava l’ultima possibilità nelle fabbriche tedesche, o in quelle degli Stati Uniti. Oggi non è più così, oggi l’immigrazione è più d’élite. Chi parte ha una formazione universitaria di alto livello, delle pubblicazioni all’attivo, oppure idee e capacità imprenditoriali forti, vincenti. Insomma, le persone di cui qualsiasi Paese ha bisogno per crescere e cambiare. E infatti l’Italia è sempre la stessa, e quelli che partono sempre di più.
Perché Berlino è in grado di attrarre artisti da tutto il mondo e Milano no (o molto meno)? Una risposta la dà Caterina Riva, curatrice intervistata dal sito Artribune: «A Londra, come in Nuova Zelanda, mi rendo conto di quanto gli artisti e gli operatori culturali siano supportati a livello pubblico e governativo e quanto gli aiuti finanziari aprano loro opportunità professionali. In Italia non esiste una volontà pubblica d’investimento nella cultura o nell’educazione, e resta purtroppo, ancora troppo spesso, nelle mani dell’iniziativa privata o personale. Siamo troppo esterofili e non diamo valore alle risorse nostrane, e spesso non si pensa alla continuità o alla qualità, ma a un immediato riscontro e a una facile soluzione. […] La recessione è arrivata anche agli antipodi, ma in Italia credo che per una donna di 32 anni sia raro avere l’opportunità di dirigere uno spazio d’arte contemporanea».
Dove andrà questo Paese se il cuore pulsante della sua voglia di cambiare è costretto a fare le valigie? Basta fare qualche ricerca su internet per incrociare storie di persone che, giunte alla fine del proprio percorso universitario, si sono trovate costrette ad andare via per poter proseguire. Non vuole essere una critica a costoro, sia chiaro, non siamo per la sindrome da abbandono. E non siamo neanche contrari al cosmopolitismo, che al contrario contribuisce ad aprire la mente e prevenire la formazione di ideologie identitarie che tanti danni hanno fatto e continuano a fare. Niente di tutto ciò. Ma non è un caso se la generazione dei trentenni è forse quella meno rappresentata in ogni ambito della vita del Paese. Bloccata dalla generazione precedente, che l’ha tenuta sempre un passo indietro a colpi di «Sei ancora giovane, crescerai», e svuotata dagli elementi più dinamici e intraprendenti, che ci guardano da altri fusi orari, si è ritrovata debole, seppure arrabbiata. Tra l’altro l’ultimo programma di “rientro dei cervelli” si è inceppato, e l’investimento fatto rischia di tradursi in un grande spreco perché, ancora una volta, la procedura per la valutazione delle domande presenta incoerenze e registra la mancanza di collaborazione degli enti chiamati a occuparsene. Come in politica la parola chiave della vicenda è quella che va più di moda in questi giorni: stallo.