Parlare di “generazione Erasmus” vuol dire parlare di qualcosa che non c’è. La formula è stata utilizzata a più riprese negli ultimi anni, soprattutto dai leader politici più progressisti ed europeisti. L’obiettivo di chi la usa è fare riferimento a un ipotetico gruppo di giovani cosmopoliti e colti, allineati a politiche di apertura verso una maggiore integrazione europea. Lorenzo Borga e Lorenzo Ferrari hanno però chiarito, in un articolo pubblicato sul Foglio il 7 gennaio, che tale “generazione” è un’idea fittizia, perché la percentuale di giovani che hanno approfittato del programma della Commissione europea che li supporta nel fare esperienze di studio e di vita all’estero è decisamente bassa.

«I numeri li fornisce al Foglio l’Indire, l’agenzia governativa per la ricerca e l’innovazione educativa: sono 5 milioni gli scambi di studenti universitari europei partiti con una borsa Erasmus dal 1987, mentre raggiungono i 9 milioni i cittadini europei che hanno beneficiato in qualche modo del programma (tra docenti, dirigenti scolastici, volontari, educatori). Sembrano numeri significativi, ma purtroppo non lo sono. Se calcolati sul totale dei possibili partecipanti tra tutti i paesi aderenti, cioè chi ha un’età compresa tra i 19 e i 26 anni circa, gli studenti che hanno partecipato all’Erasmus non sono che un’esigua percentuale. Fatto un conto approssimativo, si tratta di meno del 2 per cento dei possibili partecipanti dal 1987 ad oggi».

Ciò non contraddice l’assunto secondo cui i giovani di oggi sono effettivamente più “europeisti” della generazione che li ha preceduti, seppure con qualche contraddizione. «Un sondaggio di Eurobarometro della primavera dello scorso anno mostra infatti che il 52 per cento di chi ha tra i 15 e i 24 anni tende a fidarsi dell’Unione Europea, un dato che scende leggermente al 46 per cento per chi ha tra i 25 e i 34 anni. Si tratta di percentuali più alte di diversi punti rispetto alle classi anagrafiche più anziane. Allo stesso tempo però per il 63 per cento di loro “i nuovi partiti e movimenti politici possono trovare soluzioni migliori” rispetto ai partiti esistenti: i giovani dunque si mostrano aperti al cambiamento, come storicamente dimostrato, ma anche alle scelte di voto populiste ed estremiste. Un chiaro esempio ne è l’Italia, dove i giovani elettori si mostrano decisamente interessati a proposte politiche anti-europeiste. Secondo i dati di YouTrend i partiti “antisistema” hanno ottenuto alle elezioni di marzo 2018 più del 60 per cento del voto giovanile: circa il 40 per cento il Movimento 5 Stelle e più del 20 la Lega di Salvini. Per di più secondo una ricerca del Pew Research Center condotta nel 2017 i giovani sono più scettici rispetto agli anziani sui benefici economici dell’Unione Europea in Italia, ma anche in Spagna e nella ricca Germania».

Nonostante il programma Erasmus (che negli anni è stato potenziato e ha cambiato nome in Erasmus+) sia ormai uno dei capisaldi delle politiche europee per i giovani, siamo molto lontani dal poter parlare di “generazione”. Al limite, come suggeriscono Ferrari e Borga, si tratta di un piccolo club. Comunque un ottimo punto di partenza su cui costruire il futuro dell’Unione, ma che non deve farci dimenticare che il problema è molto più ampio visto che, «Secondo Eurostat, nel corso del 2017 l’87 per cento degli italiani under 35 non ha trascorso nemmeno una notte all’estero».

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