Ieri ricorrevano i 40 anni dall’evento che scatenò il genocidio del Ruanda, in cui nel corso di soli cento giorni furono massacrate circa un milione di persone di etnia tutsi, da parte della maggioranza hutu. Dal blog Le persone e la dignità il racconto di un uomo che ai tempi del massacro era solo un ragazzo.
Jean Bosco Gatabazi all’epoca del genocidio aveva 19 anni, ha perso il padre, di etnia tutsi, ed è stato costretto a nascondersi nei boschi per giorni. Oggi, ha un esercizio commerciale che ha creato grazie al supporto di AVSI e sogna di vivere in un paese finalmente unito e riconciliato.
Il genocidio è qualcosa che va oltre l’umana comprensione. Chi ha vissuto quel periodo lo ricorda bene, è stata una ferita enorme per tutto il Ruanda. Ricordo che, al termine delle stragi, ho pensato che la mia vita si sarebbe fermata. Disoccupati, senza una prospettiva, abbiamo cominciato a chiederci cosa sarebbe venuto dopo, ma facevamo fatica a immaginarci un futuro. Ed era forte la paura di non riuscire più a ricominciare, a tornare alla vita che facevamo una volta.
Per me, è stato come guardare la pioggia cadere, ma senza sapere come e perché. Crescendo, parlando con i più anziani, ho cominciato a capire che il genocidio non è stato un periodo di qualche mese, ma che quegli eventi sono stati solo l’apice di una persecuzione durata anni, cominciata molto tempo prima del 1994. Il Paese era diviso. Una parte della popolazione ha convinto il resto che i tutsi fossero pericolosi e che non ci sarebbe stato nulla di male a sterminarli. La povertà ha contribuito, perché rubare a un tutsi era considerato legittimo e molte famiglie hanno migliorato la loro posizione sociale grazie alle confische delle proprietà tutsi.
Oggi la gente ha capito che il genocidio è stato solo uno strumento in mano ai leader di allora, che miravano a mantenere il potere e pensavano di avere più diritto di altri a stare in questo paese. Gli atteggiamenti sono cambiati, perché le conseguenze del genocidio le hanno subite tutti quanti. A partire dai sopravvissuti, ognuno dei quali ha perso una persona cara, è dovuto fuggire e lasciare tutto quello che aveva costruito in una vita. In vent’anni, i diversi gruppi etnici hanno capito che possono vivere serenamente insieme e condividere le ricchezze del Ruanda. Non è stato semplice. All’inizio i tutsi vivevano da soli, uscivano poco e solo insieme ad altri tutsi. Poi sono nate alcune cooperative di lavoro e anche grazie a queste esperienze abbiamo avuto la forza, insieme, di andare da loro, di vederci. Ora, invece, si sente aria di vera riconciliazione.