In tempi di austerità e rigore -politica non sempre apprezzata dai cittadini, come hanno dimostrato le elezioni tedesche-, farà discutere il saggio pubblicato di recente in Germania, dal titolo “Der Kulturinfarkt”, ovvero “L’infarto culturale”. Gli autori, tutti docenti esperti in management della cultura, sostengono che in una situazione in cui l’offerta continua a crescere, mentre la domanda diminuisce, l’arresto cardiaco per il sistema è vicino. Secondo quanto riporta Vincenzo Trione su La Lettura, la proposta è di interrompere i finanziamenti a pioggia e la logica di assistenzialismo che, come un medico troppo accondiscendente verso il paziente, finiscono per uccidere la cultura.
Il contenuto del libro è riferito alla Germania, che vive una situazione decisamente più rosea della nostra, dove la cultura genera un fatturato di circa 135 miliardi di euro l’anno. Qui da noi i tagli ci sono stati, ma in orizzontale, solo per far quadrare i bilanci dell’amministrazione pubblica, senza tenere in considerazione che un euro investito nel modo giusto può fruttarne molti altri, mentre da un euro risparmiato non nascerà mai nulla. «Dopo aver a lungo “supportato” questa pluralità di presenze -riassume Trione-, lo Stato deve compiere scelte impopolari. Non ricorrere a tagli miopi, che non tengano conto delle specifiche situazioni (come aveva proposto qualche ministro in Italia).
Ridurre i sussidi, affidandosi a metodi più seri e rigorosi. Non dare ascolto alle pressioni delle singole “realtà”, dedite per lo più a difendere privilegi consolidati, cristallizzate, autoreferenziali, prive di flessibilità. E non farsi neanche ingabbiare dentro un intellettualismo di tipo adorniano. Insomma, evitare la pratica degli aiuti a pioggia. Privatizzare o addirittura “eliminare” istituzioni che hanno scarsa tendenza all’autofinanziamento: chiudere la metà dei musei, dei teatri e delle biblioteche. E destinare i sussidi rimanenti a un numero ristretto di istituzioni. Per favorire il “passaggio” del 25 per cento dei fondi pubblici a imprenditori indipendenti sensibili al mercato globale e impegnati per incrementare il consumo interno dei prodotti culturali. E, poi, ad artisti, a startup creative e digitali, a università nelle quali si studino le discipline “estetiche”. Si devono potenziare quelle iniziative che, progressivamente, potranno raggiungere l’autonomia, l’”autarchia”».
Abbiamo citato diverse volte alcune pregevoli iniziative museali italiane, che tuttavia soffrono di una cronica incapacità di reggersi sulle proprie forze. È così per il Madre di Napoli, Palazzo Riso di Palermo, il Maxxi di Roma, solo per citarne alcuni. Pregevoli, si diceva, proprio perché spingono verso l’arte contemporanea, e quindi portano una proposta di non facile consumo. E qui sta l’altro punto interessante sostenuto nel saggio tedesco. Ciò che si taglia dall’offerta, lo si deve reimmettere per generare una domanda matura e consapevole. Quindi bisogna investire nell’istruzione. Nelle scuole e nelle università si ha la possibilità di essere guidati nella comprensione delle espressioni artistiche più vicine al nostro tempo, e soprattutto fare una netta distinzione tra ciò che merita attenzione e ciò che invece è spazzatura, al di là del marketing. In conclusione ricordiamo l’immenso potenziale di reddito del patrimonio artistico italiano, da sempre sottovalutato. Come sostiene Pier Luigi Sacco, professore di Economia della cultura allo Iuav di Venezia: «Abbiamo ancora un’idea di cultura e turismo preindustriale e purtroppo abbiamo decisamente sottovalutato questo volano di crescita».