Intorno al gioco d’azzardo sta nascendo un movimento di pensiero che potrebbe portare a qualche cambiamento concreto nel Paese. Gli ultimi nomi noti a schierarsi contro le pubblicità dei giochi sono stati Beppe Severgnini, dalle colonne del Corriere, e il gruppo Afterhours che, nel testo della canzone “Il mio popolo si fa”, canta di uno Stato che «si fonda sul gioco d’azzardo, sul culto della sfiga». Parole molto esplicite, com’è tipico della musica rock, ma che proprio in questo trovano la propria efficacia.

A differenza di altri vizi dai possibili effetti nefasti per la vita delle persone, il gioco d’azzardo continua a trovare terreno fertile nel suo diffondersi su ogni tipo di mezzo di comunicazione, con l’appoggio di testimonial del mondo dello spettacolo, utili a far passare chi gioca come persona di successo. Il problema è che quest’ultimo è tutt’altro che garantito, e dietro il presunto divertimento del gioco si nasconde il rischio della perdita di controllo, col suo corollario di dissesto economico e psicologico per chi gioca e per i suoi congiunti. Così, per ogni euro che lo Stato incassa grazie alla gestione in regime di monopolio, dovrà (dovrebbe) spenderne molti di più per prendersi cura di chi, a causa di un rapporto non sano con le dinamiche del gioco, è entrato in una forma di dipendenza detta ludopatia.

Molto lucidamente, Severgnini fa notare che non è compito dello Stato proibire ai cittadini di esercitare ogni attività che possa arrecare loro un danno (i tentativi in questo senso non hanno dato grandi risultati in passato), ma almeno può evitare di incentivare a ripeterle: «Perché lo Stato dovrebbe rinunciare ai relativi vantaggi fiscali? Risposta: perché, in un Paese civile, la legge non può vietare tutte le cose nocive; ma almeno può evitare di favorirle.?Uno Stato pedagogico è inopportuno (per capirlo, basta guardare la faccia di alcuni eventuali pedagoghi). Ma qualche regola, le democrazie, se la impongono. In Olanda, dove il consumo di cannabis è stato depenalizzato, è vietata la pubblicità degli stupefacenti. In Italia, che io sappia, è vietato pubblicizzare armi, pornografia e superalcolici. La pubblicità delle scommesse, invece, è libera. “Coraggio, rovinatevi! È bellissimo”».

Il problema non è solo la pubblicità, ma anche la proliferazione di “macchinette mangia soldi” nei bar e nelle sale da gioco di tutta Italia. Se infatti a livello locale molti Comuni si stanno muovendo per limitare modalità e occasioni in cui i cittadini possono darsi alle slot (o vedere pubblicità sul gioco d’azzardo), governo e Parlamento non stanno esprimendo grandi azioni concrete per mettere un argine al problema. O meglio, alcune misure che potrebbero migliorare le cose sono state avviate, ma poi non si arriva mai a concretizzare i risultati. Come spiega Vita, la legge di Stabilità 2016 prevedeva la riduzione del 30 per cento del numero di macchinette diffuse sul territorio entro tre anni. Il problema è che, dopo l’annuncio, gli operatori del settore sono corsi ai ripari chiedendo nuovi nulla osta per aumentare il numero di slot in funzione, con la conseguenza che queste sono rapidamente aumentate, invece di diminuire.

Alla data dell’annuncio (luglio 2015) gli apparecchi erano circa 370mila, alla fine dello stesso anno erano arrivati a 418mila. Questo ha generato una certa confusione, perché non si capisce più rispetto a quale cifra si debba calcolare quel 30 per cento di riduzione. Secondo quanto detto da Alessandro Aronica, vicedirettore dell’Area monopoli dell’Agenzia dogane e monopoli, convocato in audizione parlamentare il 5 aprile scorso, questo aumento vertiginoso non dovrebbe avere effetti di contenimento della diminuzione delle slot: «In legge di stabilità è stata fissata una data, il luglio del 2015. A quella data gli apparecchi erano circa 370mila. La riduzione che la legge di stabilità ha previsto di almeno il 30 per cento è riferita a quel numero di apparecchi e non agli apparecchi alla fine dell’anno».

Una circolare diffusa dalla stessa Agenzia nei giorni scorsi ha contribuito a generare confusione, ma secondo l’interpretazione della redazione di Vita, «al netto del burocratese che nemmeno con un interprete riusciremmo a decifrare», sembra che la base su cui calcolare il 30 per cento resti quella di luglio 2015 e non la fine dell’anno. Resta però il fatto che questa disposizione resta al momento una linea guida, perché mancano i decreti attuativi per poter dare corso a questo indirizzo. Forse sarebbe meglio accelerare il processo, visto che il mercato si sta già adattando per rendere più difficile la messa in pratica del provvedimento.

Fonte foto: flickr