Nonostante il problema dell’evasione fiscale, su cui tanto si insiste come fonte di grandi problemi per il bilancio pubblico, c’è una tassa che agli italiani piace versare, per di più in forma totalmente volontaria. È quella che, inconsapevolmente, ogni giorno migliaia di cittadini offrono allo Stato partecipando a una delle svariate formule di gioco d’azzardo legale disponibili e sempre più capillarmente diffuse. Ormai qualsiasi locale in disuso è buono per farci una slot room, non importa se vicino a scuole o ospedali. I “gratta e vinci” sono in vendita anche negli uffici postali, e spesso i dipendenti sono invitati a proporne l’acquisto agli utenti: si paga un bollettino e si tenta la fortuna. Ma nel gioco d’azzardo, nonostante ciò che possiamo fantasticare pensando a cosa fare delle migliaia di euro che potremmo vincere man mano che grattiamo la casellina argentata (o tiriamo la leva della slot, o aspettiamo l’estrazione dei numeri), il banco vince sempre.
E infatti, secondo lavoce.info, «tra il 1999 e il 2009 [i giochi d’azzardo legali] hanno fatto incassare in media all’erario il 4 per cento sul totale delle imposte indirette e, in termini assoluti, hanno contribuito alle casse statali con una media di 9,2 miliardi di euro all’anno. Secondo gli ultimi dati Aams (Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato), nel periodo gennaio-ottobre 2012 la raccolta complessiva, ossia l’insieme lordo del denaro mosso dai giochi, è stata di circa circa 70 miliardi». Inoltre, un dato preoccupante, che normalmente non viene sottolineato, è che tale tassazione volontaria non è proporzionale al reddito, ma va a incidere prevalentemente su quelli medio-bassi. Ed è ciò che emerge dal grafico che pubblichiamo anche noi, e che «riporta la relazione tra il reddito famigliare equivalente e la percentuale del reddito speso nei suddetti giochi. La figura mostra che le famiglie con redditi più bassi tendono a spendere una percentuale del loro reddito più alta rispetto alle famiglie più ricche. Questo è vero sia considerando la spesa media in giochi tra tutte le famiglie italiane (linea tratteggiata), sia limitandosi a quelle con almeno un giocatore (linea continua). Le famiglie giocatrici più povere spendono circa il 3 per cento del loro reddito in questo tipo di giochi, mentre quelle più ricche spendono meno dell’1 per cento. Dato che i giochi di pura fortuna portano in media a una perdita di denaro perché sui grandi numeri “il banco” vince sempre, la spesa in giochi si traduce a tutti gli effetti in una sorta di “tassazione volontaria” di tipo regressivo e in un più generale fattore di disuguaglianza socio-economica».
L’obiettivo di rastrellare denaro da parte dello Stato si scontra quindi con il problema etico di innescare una dinamica perversa per cui, chi meno ha, è più portato a investire denaro e sperare nel puro “colpo di fortuna” per migliorare la propria condizione. Non sono peraltro fenomeni nuovi quelli che stiamo descrivendo, sono tendenze che si conoscono bene e che sarebbe bene non ignorare (né tanto meno incentivare), pensando solo ai facili guadagni che la diffusione di tali giochi implica. «In altre parole -concludiamo citando ancora lavoce.info-, c’è da chiedersi se l’incoraggiamento di tali attività da parte dello Stato non contribuisca a diffondere una cultura in cui l’importanza del talento, dell’impegno e del lavoro venga sminuita. In tutto ciò lo Stato italiano sembra non aver avuto dubbi consentendo, attraverso Aams, campagne pubblicitarie massive e liberalizzando il settore del gioco d’azzardo».