Sabato primo giugno, il programma La lingua batte, in onda tutti i sabati dalle 14 su Radio3, si è occupato dell’uso della lingua italiana nel giornalismo. Chi esercita la professione giornalistica ha infatti il delicatissimo compito di presentare al cittadino gli aspetti della realtà più rilevanti affinché questi possa definirsi informato. Una responsabilità non da poco, dalle cui scelte dipende la comprensione e l’interpretazione dei fatti che accadono ogni giorno. Lo strumento principale per veicolare informazioni è sempre stato, e resta, la parola. Un suo utilizzo improprio, approssimativo, ambiguo o semplicemente sbagliato può generare grossi guai. Dal frainteso più innocuo alla vera e propria manipolazione della realtà.
Durante la trasmissione in questione è intervenuto Stefano Trasatti, direttore dell’agenzia Redattore Sociale, che si occupa principalmente di temi relativi ai diritti civili, al volontariato, alla cooperazione internazionale, ecc. Trasatti ha presentato il libro Parlare civile. Comunicare senza discriminare, risultato finale di un progetto iniziato alcuni anni fa. «Stavamo pensando da tempo a uno strumento per segnalare usi sbagliati delle parole e fornire alternative corrette -ha spiegato-. Poi nel 2009, con il varo del “pacchetto sicurezza” da parte del governo, è emersa la necessità di concretizzare l’idea». Con quell’insieme di norme si introduceva il reato di immigrazione clandestina. Da quel momento in poi clandestino e delinquente sono diventati sinonimi nel nostro Paese. Senza che questo avesse peraltro il minimo effetto positivo sui problemi legati alla sicurezza o alla sua percezione.
«Troppo spesso sentiamo utilizzare parole inadeguate (o sbagliate) in situazioni di grande delicatezza -ha continuato Trasatti-. Così ci siamo dati uno slogan e abbiamo cercato di dargli senso: non esistono parole sbagliate, esiste un uso sbagliato delle parole». E in effetti la ricchezza lessicale della nostra lingua non sempre è sfruttata a dovere nel mondo del giornalismo, che spesso privilegia la tempestività della notizia rispetto alla precisione o alla completezza dell’informazione. L’esigenza di chiudere articoli e servizi, la necessità di veicolare molte notizie in poco spazio, spesso portano i giornalisti a pericolose semplificazioni. Ma è proprio la rincorsa di questo falso valore che genera problemi. Trasatti cita alcuni esempi. La parola nomade è utilizzata impropriamente per riferirsi alla comunità rom in Italia. Il 90-95 per cento dei rom oggi è stanziale: si tratta di lontani discendenti di quella generazione in continuo movimento che li ha portati in Europa e poi nel mondo.
Altra espressione fuorviante è quella di migrante, quando riferita a persone che vivono nel nostro Paese magari da anni, hanno un lavoro, una famiglia e una casa, mentre il participio presente presuppone uno spostamento continuo, che invece è finito da tempo. La stessa parola immigrato è spesso usata a sproposito, quando appiccicata su chi magari nel proprio Paese d’origine non ci è mai stato, come i ragazzi nati in Italia da genitori stranieri. Nuovi italiani, questa è una definizione corretta. Proprio la conoscenza dell’italiano, secondo Trasatti, è l’elemento distintivo di chi, oltre a essere nato qui, ha anche acquisito una serie di elementi culturali e sociali che la lingua porta con sé. Chiamando immigrato chi non lo è lo si taglia fuori da un contesto in cui è nato e cresciuto, in cui si è formato e di cui a tutti gli effetti fa parte, a prescindere dalle origini della sua famiglia. A voler guardare da un altro punto di vista la questione, siamo forse noi a dover diventare dei “nuovi italiani”, accogliendo nel nostro orizzonte anche chi non corrisponde alle categorie estetiche a cui siamo abituati. Noi come lettori, ma anche e soprattutto chi scrive, proprio per il ruolo che ricopre.